Elio Vittorini, e il traforo del Frejus come le Piramidi

imagesIl Sempione strizza l’occhio al Frejus. Una storia di povertà e disoccupazione, intorno al tavolo della stanza da pranzo. Tensione formale, valenze astratte dei personaggi, forme narrative che disegnano condizioni mitiche. Un rigirìo di pensiero che rimanda antelitteram a Stefano D’Arrigo. È provincia il luogo del racconto, il ponte sul Lambro. Ma anche questo lungo e infaticabile interno è provincia, come dire è in ogni tempo. Questione antica, il nonno improduttivo. Chi mangia e pesa nell’economia della casa. La scomparsa eroica dentro il bosco, come gli elefanti che cercano il luogo dove morire. Togliersi dai pensieri quotidiani, morire con dignità. Sarebbe una storia di oggi, con la variante della tivù che racconta pensieri finti, il cibo in scatola già pronto, il benessere elettronico, e l’essenziale, la libertà di esistere diversamente, mangiato dalla noia, la disoccupazione materiale e sentimentale. Una descrizione di paesaggio industriale, diremmmo città. I treni immancabili che corrono sulle rotaie vicino a un bosco, che dà ricordo di cosa si sarebbe se fossimo natura. il binario sommerso dalle ortiche. Guancia appoggiata alla città. Uomini liberi, e non di qualcuno. Non prestidigitatori come nei nostri tempi. I tempi in cui si soffriva la fame, quelli del dopoguerra. I tempi oggi in cui si soffre d’altro.
Nel giro di certi dialoghi, nel cerchio ripetitivo del significato mi sembra rivedere l’ottusità essenziale di certi siciliani tutto dialetto e mani sporche, una ottusa genialità che così pare all’istruito filosofo, ma che non è altro che mente attorcigliata torno torno lo Abc della esistenza.

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