
Nel primo capitolo de Luna e i faló Cesare Pavese s’inventa un paragone interessante. Il paese dell’infanzia, dopo una lunga assenza, mi faceva l’effetto di quelle stanze di città dove si affitta, si vive un giorno o degli anni, e poi quando si trasloca restano gusci vuoti, disponibili, morti. Il protagonista di nome Anguilla è uno sradicato. Nella vita è stato un po’ qui, un po’ lì, ha cambiato i luoghi dell’esistenza – Genova, poi in America – e non ha partecipato al cambiamento dei luoghi: dopo tanto tempo ritorna in paese e lo trova uguale nelle forme, ma cambiato nel sangue che vi circola.
La lingua di questo Pavese ha una cura al cantabile, mi sembra un tono elegiaco (Così mi misi per il prato e costeggiai la vigna, che tra i filari adesso era a stoppia di grano, cotta dal sole), che mescola il letterario a espressioni che non saprei come definire – più sbrigative, ad imitazione del parlato – rimescolando moduli veristi. Un effetto di spigoli e piallature.