Una storia vera (1)

di Giulia F.

 Non giudicatemi, ho cercato di essere me stessa e non è stato facile. Da piccola sono stata una bambina silenziosa, per questo ero messa da parte dai miei compagni. Non mi cercava nessuno, ero solo un intralcio. I bambini sanno essere spietati e cattivi, mi nascondevano il diario di scuola e lo ritrovavo dentro l’armadietto dei libri, in bagno oppure sotto l’albero del cortile. Ogni volta che la maestra faceva il dettato, io non trovavo le penne, chiedevo che qualcuno me ne prestasse una nera o blu, anche smanciata nel tappo, consumata, ma nessuno mi voleva bene. La maestra mi rimproverava, avevo tentato di spiegare il mio problema con tanta timidezza come un uccellino impaurito dentro la gabbia, ma neanche lei mi ascoltava, credeva che fingessi. E un giorno provai a parlare con la preside, una signora grande, che vestiva sempre di bianco. – Preside mi rubano sempre le penne e il diario – denunciavo. – chi sono questi compagni cattivi? Io facevo i nomi, almeno quelli che credevo fossero i colpevoli. Lei andò a chiamarli, e dopo pochissimo mi ritrovai faccia a faccia con tre compagnetti maschi più una femminuccia: tutt’e tre negarono, nè la preside aveva altre prove se non la testimoniamza della maestra la quale, una stupida, non si accorgeva mai di niente, neanche di quando le mettevano il gesso dentro la tasca del giubotto lasciato pendere accanto la porta d’ingresso. Ma a casa non dicevo niente, perché nel frattempo la mia roba la ritrovavo, ma nei posti più disparati; qualche volta mi facevano trovare sotto il banco un bigliettino anonimo in cui si indicava il luogo in cui avrei rinvenuto il diario di scuola, oppure il quaderno, e tante altre cose che puntualmente mi scomparivano sotto il naso. Tutto questo durò un periodo, poi improvvisamente come se tutto fosse naturale, non dovetti più subire queste forme di prepotenza. I miei compagni si rivolsero verso un altro compagno che frequentava la sezione d. Io fui trascurata, perché inerme ormai soggiacevo alle loro rappresaglie; ebbene l’indifferenza mi fece ancora più male, poiché non mi sentivo degna neanche di suscitare l’antipatia e la violenza dei compagni. A ben ricordare fu proprio in quel periodo di pace e solitudine che cominciai ad avvicinarmi a un gattino che passava dal balcone di casa, e si fermava davanti la finestra come se aspettasse qualcuno della mia famiglia che aprisse la porta facendo penzolare tra le dita una striscia di mortadella profumata. E così infatti facevo io, e la vezzeggiavo, e lei mi si avvicinava sempre, famelica, pronta a sfoderare tutta la sua superbia una volta che avesse conseguito il suo scopo. Solo quando un giorno tentò di entrare in casa, mia madre mi rimproverò urlandomi e facendomi quasi paura con il cucchiaio in mano e i capelli trattenuti da un fazzoletto rosso. Ancora avevo sette anni, ero piccola, e la vita non mi sorrideva. 

Avevo un nuovo amico, come si dice. E in verità era il mio primo amico: il gattino bianco che s’affacciava ogni sera al balcone di casa, dopo aver saltato di terrazza in terrazza in cerca di cibo. L’avevo chiamato Bianca perché era femmina. Mia mamma era contraria al fatto di abituare Bianca a mangiare da noi, ma io fui ostinata a non obbedirla, e in questa mia ostinazione ebbi mio padre alleato.
– Importante che non entri a casa, – mi aveva raccomandato.

Bianca ci faceva visita ogni sera, e prima di darle ciò che rimaneva della cena, ci giocavo e le parlavo; lei mi ascoltava fissandomi con gli occhietti come un bambino. Poi una mattina avvenne una cosa. Era estate, e rimanevo sola a casa perché i miei genitori lavoravano. Mi divertivo, accendevo la televisione e guardavo tutti i programmi che volevo senza chiedere il permesso a nessuno o vergognarmi se mi piacevano i vecchi telefilm brasiliani oppure le telepromozioni dei maghi che leggevano le carte in diretta. Mi piaceva anche perché improvvisamente in casa cadeva un silenzio misterioso e stavo in soggiorno e avevo paura che in salone fosse entrato qualcuno di nascosto. E questo timore mi spaventava e al tempo stesso mi esaltava; avevo paura e non avrei voluto far a meno di quella forte emozione che mi faceva sentire grande.

Amavo guardare anche le Olimpiadi, e tutti quei sport strani, bizzarri, che non si vedono mai e di cui si sconosce l’esistenza, come il tiro al martello, oppure le gare in cui lo stesso atleta corre, nuota, spara al piattello e non ricordo cos’altro dovrebbe saper fare. E io stavo davanti al televisore. Il computer era intoccabile, perché solo mio padre ne conosceva la chiave d’accesso.

Dicevo, era estate e Bianca miracolosamente mi fece visita. Si mette a miagolare. Non appena apro il balcone fa dei passetti indietro come se mi chiedesse di seguirla. Lei va avanti, salta la ringhiera e aspetta che anch’io salti la ringhiera a modo mio, e calpesto il parato condominiale. Bianca si dirige verso un balcone al piano terreno. La seguo. Lei si ferma sotto il balcone la cui finestra era aperta.

(continua)
 

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