
“Spesso, quando si rientrava, sulla piazza, la nonna mi faceva fermare per guardare il campanile. Dalle finestre della sua torre, poste a due a due le une sopra le altre, con quella esatta e originale proporzione nelle distanze che non dà bellezza e dignità soltanto ai volti umani, esso liberava, lasciava cadere a intervalli regolari degli stormi di corvi, che per un momento volteggiavano con alte strida, come se le vecchie pietre che li lasciavano roteare senza parer vederli, divenute di colpo inabitabili e sprigionanti un principio d’agitazione infinita, li avessero percossi e respinti. Poi, dopo avere striato in ogni senso il velluto violetto dell’aria della sera, tranquillatisi bruscamente, tornavano ad immergersi nella torre, da nefasta ridivenuta propizia, qualcuno posato qua e là, senza parer muoversi, ma ghermendo forse un insetto, sulla punta d’una guglia, come un gabbiano fermo con l’immobilità d’un pescatore sulla cresta d’un onda.”
(Marcel Proust, Combray, 1913)