
Non si era mai visto, a casa mia, un autunno così smodato. Pareva che il mio giardino, mentre noi non c’eravamo, avesse fatto festa, ballato sino all’alba e vomitato (sentivo anche, ma forse era un’impressione, odore di cose scadute, vino acido, vermi schiacciati sotto i piedi). Scansai la pozzanghera su cui galleggiavano insetti e lunghi filamenti. Davanti a me l’edera del pergolato aveva raggiunto con un balzo la scala e si accoppiava coi petali della solandra, le piccole unghie affondate nel calice. Il giallo carnoso dei fiori e il verde mosso delle foglie brulicavano nell’incrocio, ed entrambi, fiori e foglie, soffocavano in un abbraccio che si smorzava esausto sul muro. Mi abbandonai sulla panca. Una foglia si staccò dal ramo e sibilò ai miei piedi. Le lingue rosa della buganvillea, dall’aiuola, si allungarono smaniose su quelle stanche del glicine, e foglie e foglie dappertutto, labbra di foglie screziate e lucide di ogni specie che s’infilavano tremule nei varchi disponibili, una crepa, un vaso rotto, una fessura tra i mattoni. E foglie coi denti che succhiavano il ferro delle sedie, si contraevano e si dilatavano. Ossa di foglie per terra, che gemevano sotto i passi. Foglie molli e sfinite, ridotte a fibre, nervi, polvere. Foglie bagnate e foglie irsute, che mugolavano nel vento e si umettavano i bordi, e poi i tentacoli dei rami neonati che si aggrappavano ad arbusti più forti. Pure un pezzo di tronco destinato al camino aveva messo radici e si era tramutato in albero. Un breve, deforme, trinchetto della felicità. Non riuscii a toccarlo. Si strofinavano sul muro anche i rampicanti del vicino, che scavalcate le recinzioni si erano lanciati sull’agave, in un groviglio che aveva qualcosa di terrifico. meraviglioso, anche. Il bello è che non ci eravamo mossi da casa. Quando era successo tutto questo? Il tramonto si era compiuto. Sentii lo sguardo strisciante dell’edera che guizzava sulla ringhiera. Sotto la gonna a fiori, un rampicante mi si avvitava addosso.
(Elvira Seminara, L’indecenza, 2008)