Sulla quarta di copertina di Cara Pace (Ponte alle Grazie, 2020) a firma di Nadia Terranova si legge: Lisa Ginzburg ha scritto un romanzo meraviglioso, maturo, stilisticamente altissimo nel solco della nostra migliore letteratura. Un po’ più realistica l’esternazione di Domenico Starnone che si limita a lodarne la trama. Ora, cosa intenda Nadia Terranova per stile altissimo piacerebbe chiederlo alla scrivente, perché in questo romanzo, a mio parere, la qualità della scrittura è banale: della migliore nostra letteratura c’è solo un cognome.
Crediamo per sentito dire che i giudizi sui romanzi contemporanei formulati nelle fascette sono frutto di mediazione, una forma anche generosa di solidarietà professionale. Ma l’uso dei superlativi, Santiddio!
Vorrei esprimere appunto un’opinione contraria. Il prodotto è lanciato sul mercato guardando a un pubblico (il target) specifico. Allora, Cara Pace che pubblico vorrebbe conquistare? Non lo saprei, non saprei definire le caratteristiche dei lettori o lettrici del romanzo. Di certo sappiamo che Cara Pace, a cui, anche se criticamente, sto dedicando questo articolo, è nella dozzina candidata al premio Strega. Ma aggiungo: i lettori di Cara Pace userebbero con disinvoltura i superlativi e della tradizione letteraria nostrana forse conoscono i Feltrinelli e i Mondadori degli ultimi cinque anni. Nel romanzo riscopro soprattutto ovvietà stilistiche, una lingua automatizzata, insanguinata da frasi sfatte e luoghi comuni.
Sarebbero bastate una due poesie, e invece sono state scritte duecento quarantasei pagine in prosa scheletrica. Gli scheletri sono come le famiglie felici, tutte più o meno si somigliano. I capitoli senza numero o titolo di riferimento sono brevi, due pagine, tre pagine poco più. Come lettore ho sofferto. Non per la storia; per il come la storia si evolve: una prosa senza ritmo. L’estrema semplice povertà della sintassi insieme a un tramare fra sottigliezze e grossolanità, trasforma il semplice in pesante, le immagini non prendono il volo, stramazzano al suolo come passerottini appena nati. Sarebbe forse vero che dal romanzo italiano oggi nessuno si aspetta nulla di rivoluzionario, un farmaco antidepressivo: consolare, confortare, addormentare.
Faccio un esempio. I capitoli dedicati all’amore della madre, Gloria, per l’aitante sud americano Marcos. La struttura della storia è interessante. La voce narrante segue le fasi della nascita di un sentimento difficile: il senso di claustrofobia di una madre a tempo pieno; la scena di Gloria al parco coi bimbi; la noia di una vita sacrificata; la voglia di pensare solo a se stessa; l’incontro con Marcos, la scelta di lasciare la famiglia, le sorelle che si dànno forza vicendevolmente per gestire un sentimento di distacco, un padre si libera delle bambine lasciate alla cura di diverse domestiche. La storia è scomoda, rema contro il senso comune della madre soddisfatta e felice, ha una sua consequenzialità ben studiata, attenta alle sfumature psicologiche. Ma lo stile è ben altra cosa.
Pag. 59. Il grassetto è mio. Leggiamo queste variazioni sul tempo che non passa e la noia che aumenta.
Dopo la nascita di Nina le giornate per la mamma si erano fatte ancora più lunghe, pesanti da far passare. Specie le mattine dovevano essere interminabili: se ne andava in un piccolo giardino pubblico di Genzano, si sedeva su una panchina, il braccio presto anchilosato a forza di cullare il passeggino doppio dentro cui stavamo Nina e Io. Cercava di ingannare il tempo, sfogliava riviste femminili, ostinata provava per l’ennesima volta a leggere La donna di gesso, un romanzo acquistato all’edicola della Stazione Termini, iniziato da mesi e che non riusciva mai a terminare. Si annoiava a morte: e il peggio era che lo sapeva, ne era del tutto consapevole.
Basterebbero questi pochi righi per ricondurre il giudizio sullo stile altissimo a un normale grado positivo, che di per sé sarebbe ancora troppo superlativo. Cos’è avere stile? Raccontare cose normali in modo che siano uniche e straordinarie, nuove. Fare del normale l’emblematico, il necessario. Raccontare con una precisione poetica da far vivere il personaggio. È stile un complesso di scelte e mezzi espressivi che possano dare vita all’immaginazione. E invece qui lo stile inanella ovvietà qualunquiste. Il tema è: una madre annoiata. Quindi c’è il passeggino, il braccio anchilosato (l’aggettivo in assenza di ironia fa davvero cadere le braccia), ovviamente c’è il giro al parco e la panchina solitaria, il libro mai terminato e comprato alla Stazione (che non si vorrebbe che siano così anche i lettori a cui il romanzo è rivolto? Che il lettore tipo del premio Strega sia questo?), anche le riviste femminili, tipica scenetta di un mondo senza computer. Avremmo altrimenti le chat, il social, l’avviso di una festa pre-covid. E quindi la noia è mortale. Potremmo cambiare il soggetto: uno studente annoiato fino alla morte, non riesce a studiare, va al parco, la testa come anchilosata per la fatica, la panchina solitaria. Parole, mezzi espressivi semplicissimi e consueti, da immaginario filmico comune.
Lo stesso vale per la descrizione di Marcos. Un ragazzo sud americano sarà infatti con gli occhi neri carbone, la dentatura bianchissima e perfetta. La madre si perde nel nero di quegli occhi. È un giovane pieno di energia, lei obbedisce al suo richiamo. Sarebbe questo l’altissimo lessico della seduzione? O forse il festival del banale? Non è forse tutto questo che rende il romanzo per nulla letterario? Stancante, inutile, pesante, pesantissimo? Esagero? Sono imperdonabilmente esagerato. Affabulare al centocinquanta per cento. Rimane la storia in sé, lo scheletro morto. Una storia da sceneggiare, e un film da girare. Il film riuscirebbe migliore del romanzo, solo a condizione che il linguaggio cinematografico non rimanga schiavo di equivalenti banalizzazioni e ovvietà. Bisogna confortare, tranquillizzare, consolare, addormentare, confermare. Questa è la poetica dominante che fa strage di lettori
Termino. Imbarazzante la descrizione della gita in barca. Pagina 141. La scrittrice non conoscerebbe la differenza tra pagare e remare. Non sa la differenza tra pagaia e remo, il cui uso ha bisogno di una tecnica di manovra differente, e offre piuttosto al lettore un’indifferenza. Così come quando improvvisamente il motore del gozzo si inceppa (Marcos sarebbe qui un imprudente uomo di mare, a mio avviso).
Un uomo pratico, paziente: un pomeriggio il motore del gozzo si era inceppato e Marcos tempo un’ora aveva risolto la situazione, lasciate noi tre su uno scoglio con l’autobus aveva raggiunto il porto per poi tornare con una tanica di benzina e un grosso cacciavite, preciso, attento, qualcuno che mai ci avrebbe messo in difficoltà, avevo pensato.
Credo che l’autrice non si sia mai imbarcata su un gozzo. Se si inceppa il motore, te la fai a remi fino al porto, oppure vai a riva, una riva sabbiosa per tirare in secco la barca, oppure chiami l’SOS, getti l’ancora con la probabilità che la barca sia comunque trascinata dalla corrente. Ma gli scogli no! Rischi di andarci contro. Insomma, non puoi lasciare due ragazze sopra lo scoglio (e la barca?) senza spiegare cosa ne fai della barca. Un gozzo non è una automobile da parcheggiare dove capita. Poi, il cacciavite se non ce l’hai a bordo sei uno sprovveduto, così come sei sprovveduto se non hai mezza tanica di carburante di riserva. E poi, mentre navighi senza motore e senza remi, la barca si ferma, non può essere trascinata dal vento (in caso dalla corrente). Non voglio immaginare quelle due ragazzine sopra uno scoglio, da sole, il tempo (non un’oretta, di sicuro) che Marcos prende l’autobus eccetera eccetera e ritorna.
Se almeno ci fosse stata ironia in tutta questa storia, sarebbe stata una vera dimostrazione di stile.
© FrancescoGianino