I migliori compagni della nostra età sono gli elettrodomestici. Necessari, inseparabili, invasivi, condizionanti, creano dipendenze, e per questo ci fanno felici. Mi astengo dal formulare un elenco dei nostri parenti di ultima generazione.
È un ideale contemporaneo: fare della vita un peso leggero.
Andavo per sentieri soliti di montagna, ho osservato un’antenna altissima, ripetitore di frequenze elettromagnetiche. La strada asfaltata era smottata dalla innumerevole pioggia novembrina che dopo aver intriso d’umore il terreno, scivolerà in torrente e porterà con sé terriccio e fango a forza, fin sopra al paese; e la montagna, dicono, si muove. Ormai la montagna cammina come un vecchio cieco.
L’antenna altissima, e piloni di cavi elettrici a distanze misurate. In cielo un rombo aereo dipinge l’azzurro di vertigine, come fossimo sempre più giù, dentro un pozzo colorato di blu. Non conosco i nomi degli alberi.
Ecco che ritorno nel centro abitato. Le straduzze strette, le case tanto vicine come se si abbracciassero, le finestre occhieggiano l’un l’altra. La voce di Frizzi Fabrizio è amica e fa ritrovare alla gente invisibili conoscenti. La stradetta lastricata di pietra deserta, i gatti sfrecciano come Cheyenne intorno il campo del Little Big Horn: balzano da magri cassonetti d’immondizia. Un vaso di fiori gerani su un davanzale, il lenzuolo bianco steso al vento, un sassofono esegue scale da pentagramma. La banda suonerebbe per i giorni di festa, tutto il giorno, su e giù per il Corso: giù e su, e sono bei ragazzi, belle ragazze adolescenti di paese che soffiano ottoni e legni e ricordano chi c’era una volta, quando la gente usciva di casa per ascoltare l’ouverture della Gazza ladra, un pezzo d’ottocento …
E oggi, dopo trentanni buoni di tradimenti, in città lontane e vicinissime, risuonano ancora i Rossini tra cuori di pietra e pareti in cartongesso fradicio.
Le sedie al bar sono occupate. Una donna sdentata ha il volto della pace e della tempesta. La ricezione telefonica in questo punto del paese è sofferente. Agli anziani non importa più niente. La vita è sempre lì, come un nemico fuori dalle mura. Ci sono anche i turisti stagionali. Come on with me, vieni cù mia, gli dico in siculo inglese, e dai gesti capiscono le mie intenzioni. “To this way I will show wonderfull landscape”, e li porto scale scale sulla sommità della timpa, al confine col cielo. Here you are, look, look. E di qui taliano tutto un paesaggio della vallata, fino a Castiglione, e tutto sta sotto l’impero del vulcano siculo. Meraviglioso, e il sole dell’autunno che sparava le ultime frecciate, e le gambe lunghe e tiepide di una slava, e il viso rubizzo del marito, e quella femmina bianca e bionda e carnale e bellissima. Ecco, il divino. Il vulcano e la femmina forestiera. E lui, l’altro, un accompagnatore ben in salute.
E poi gli dico questa cosa qui: voglio mostrarvi il futuro (I will show you the future). Eravamo alti, dove le case sgretolano a vista d’occhio e il paese è come un parco archeologico della civiltà contadina: un tetto sfondato da una parte, una parete caduta, gradini per le nuvole, l’abbeveratoio per asini. Venite qui, e mostro un cancello semiaperto arrugginito. Oltre il cancello, gli dico, c’è il nostro futuro. Oltre le macerie, dopo i brandelli di tempo, rovine aggrappate alla montagna, c’è una campagna e altra campagna: di qua, venite, terra e pietre e verde e azzurro, di qua, divina creatura ignara del ‘vero’, di qua: un silenzio, il nulla più, oltre l’umano.