La regina degli scacchi, Walter Tevis

Da questa mossa, che è un sacrificio tattico, prende titolo il romanzo di Walter Tevis, Queen’s Gambit (1983), tradotto liberamente in Italia come La regina degli scacchi. Il titolo originale ha un significato ben più sottile di quello italiano che si propone di non spaventare il lettore. Tuttavia questo rimane un libro di tecnica scacchistica.


La vita di chi vuole raggiungere obiettivi eccezionali, coltivando un proprio talento, è sempre bivalente, fatta di successi clamorosi e sacrifici letali. Chi vince, ha qualcosa da perdere. Oppure: proprio chi ha già perso tutto, ha bisogno di vincere. Il sacrificio è il pane quotidiano di chi vuole andare avanti nella vita.
Questo il nocciolo della storia, per dare senso alle cadute, agli stati d‘ansia, ai rimedi dell‘alcol, e anche a un’affettività ferita. Sarà pur vero che per giocare a scacchi bisogna essere calcolatori, e controllare le emozioni. Si gioca con regole e pezzi di legno. Chi non controlla l’emozione, perde. I russi sono i migliori, monaci della scacchiera in borghese.
Nabokov, in La difesa Luzin (1964), aveva già scritto il romanzo di uno scacchista. Lì sono invisibili le partite sulla scacchiera. Anzi, per descrivere il movimento dei pezzi, si dice che il cavallo “galoppa”. Quello di Nabokov è un romanzo sul conflitto tra genio e normalità. Gli scacchi fanno da cornice. Differentemente in Tevis: la cornice, lineare e sottile, è il conflitto tra genio e normalità; il dipinto sono pagine e pagine di tecnicismi, come le perline di un rosario: tutta la faccenda (partite e tornei) sarebbe fin troppo didascalica, se non fosse valorizzata da una lingua filastrocca. Tevis trova un modo per evitare le lettere e numeri della codificazione scacchistica (Cavallo F6 per esempio) e descrive una continua litania di … pedone di alfiere di regina (che in inglese suona: queen bishop pawn) alternando per esempio con … pedone e4 (che in inglese suona pawn to king four, ovvero: pedone di re sulla casella quattro o non so come dire altrimenti), knight to king beshop three (che sarebbe Cavallo c3), cavallo di re che mangia il pedone della torre, e in questo vortice incantato, leggero e volubile, la partita ha un suono ipnotico, la scrittura trova una sua tensione di suono più che di senso. Dovremmo prendere una scacchiera, mettere su i pezzi e ricostruire tutto. Ma sarebbe un po’ troppo per i lettori di narrativa.


Come se uno scrittore raccontasse l’ascolto di un Notturno Chopin analizzando battute in tre quarti e tre sedicesimi. Insomma, un tecnicismo che potrebbe piacere agli specialisti, ma fin troppo inutile per chi vuole leggere, a meno che … le parole non siano già suono per creare tensione nello snocciolare un poema fatto di torri re alfieri pedoni e regina.

La serie televisiva che segue quasi fedelmente il romanzo (il cui finale è molto meno romantico, e più intenso) si è posto l’arcano: come raccontare una (decine) di partite di scacchi senza annoiare. Il regista s’inventa sempre un modo nuovo, usando ora l’inquadratura, ora la colonna sonora, ora un commento esterno, ora la voce di Beth, le facce, le mani appuntate sugli zigomi.

Piegarsi sulla scacchiera, tirarsi indietro, osservare increduli. Il romanzo è monocromo. Le relazioni umane rimangono nel filo del non dichiarato, sospese nell’incertezza di ogni definizione, essenziali e talvolta insipide. Ma ormai il motore della macchina narrativa è stato avviato e il lettore è dentro il giro vizioso di alcol, scacchi e tornei. Se nel film le pillole creano uno stato di illuminazione, nel romanzo servono a rilassare la ragazza che, altrimenti, non avrebbe la serenità per concentrarsi. Il tocco di fantastico è merito del regista che colorisce un personaggio un po’ piatto.
La lettura quindi scorre. E succede sempre qualcosa, anche se succedono sempre le solite cose: shopping, descrizioni di di abiti, partite amichevoli o partite con scommessa, alcol, sonno difficile, sguardi, hotel, studio, esercitazioni, le ampie sale degli alberghi, qualche slancio sentimentale subito riassorbito dagli impegni scacchistici. Per esempio: she went on winning, beating a Frenchman the next day and an Englishman on the day after. Borgov won his games also. On the next to the last day when she was playing anither Dutdhman – an older and more experienced one – she found herself at the table next to Borgov.

Tutto così, senza troppi giri di parole. Le reazioni emotive sono una scrollata di spalle, un accigliarsi, un guardare fisso. Non altro. E poi altre cose simili che si susseguono – partite, sguardi, sconfitte, ore che corrono, mosse. Tutto questo è inconcludente dal punto di visto letterario, mentre il lettore (o lo spettatore) si chiede: Beth ce la farà anche stavolta? L’impalcatura narrativa è davvero minimale, ovvero composta da poche tessere ben posizionate, che costruiscono uno spazio riconoscibile e mai contraddetto.

Ottimo esercizio per migliorare l’inglese senza tante complicazioni linguistiche (non è Nabokov, ovviamente).

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