Il cielo pende dai lampioni, Cannizzo

È vero che il pronome Io non trova luogo, ma è più vero ancora che l’Io si è calato nella buca del suggeritore e sul palco è di scena l’analogia: la figura retorica più amata dalla tradizione poetica modernista. Essa, come usata dal poeta della raccolta Il cielo pende dai lampioni (Algra, 2020), Enzo Cannizzo, plasma immagini stentoree, epigrammi dalle ali iridescenti. E, in questa mia lettura, le poesie sembrerebbero emanare bagliori di ombra, luci di assenze, proiezioni di ex vita, essenze dell’altrove.

Dalla buca del suggeritore il poeta fa dire alla voce in scena ciò che si dispone dietro i nomi. E sono privazioni, assenze appunto: le carte da gioco arse sul tavolino, una città che è nera ed è bianca ma è nera soprattutto e notturna e desolata, le giostre non alte ma riverse sul lungomare, loden senza volti;  i milioni di passi anonimi e i canti ubriachi sono dismissioni di gioia e felicità; gli occhi fissi su un rinsecchito durex: l’ombra è un “senza”. L’analogia sottrae la vita (il buio è il cappotto di in prete / tutto è come sembra): fantasmi.

Se in un poeta come Roberto Deidier (All’altro capo, Mondadori) l’ombra è memoria e rivelazione ardente (leggi la poesia Schopenhauer: il poeta lascia alla porta il lattaio per cercare un’alba nel silenzio notturno della volontà – per cercare l’alba all’imbrunire, canterebbe qualcuno); l’ombra del Cielo pende dai lampioni stampata trasforma i mortali in fantasmi; se l’ombra è stampata sulla città, questa è un sogno in avaria: la città a noi ignota governava / dalla sala d’attesa di un medico / demiurgo piangeva morti / agli incroci / sguaiati come scooter.

Ironia politica a parte, o forse sarcasmo, la città è città di morti.

L’ombra è anche parte del paesaggio naturale. E ció che prima conteneva una privazione (il fervore dello spirito commerciante sembrerebbe essere ritratto con cera cadaverica propria di chi insonne e ubriaco zoppìa in un lungomare banale); la campagna del calatino e del biviere di Lentini è fotografata con particolari micro realistici, e quindi sepolcrali: curvi vagano gli spettri / consueti della controra; pietre di nessuno / strangolate nel sole; muto/brucia/il filare; oppure la pietrificante Medusa all’ombra/cava del carrubo. Nello sguardo poetico che congela il tempo, ci sono anche fiammate di accesa vitalità: i tramonti incendiari, il crepuscolo, i ladri beati, gli unici forse felici, che rubano vita alla volontà di tutti. 

Dopotutto Proserpina, moglie di Plutone dio degli inferi, era di stanza in Sicilia. Non c’è vero siciliano senza sostanziale pessimismo. E se non conoscessimo l’uomo e la sua ironia, lo penseremmo un pessimista totale, quando invece sembrerebbe un pessimista sentimentale, che risente ironicamente di una grande disillusione. Non tanto disilluso dalla campagna e dalle sue leggi: le leggi dell’altrove; quanto deluso invece dalla città, presumibilmente la città di Catania, quella di adozione (di dio laboriosa / assenza; la città è una mammella di pietra; /il mare che non vedi).

Basterebbe una quartina, fulminante e non equivoca. 

Qui il poeta esce dalla buca, si prende le sue responsabilità, e dice. E dice a volto scoperto:

Abbiamo tutti attraversato la città

come eco o tarlo in fuga

durante il brusio profondo

del sogno di un altro.

©FrancescoGianino

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