I fantasmi di Librino, Spanò

Il primo dei cinque racconti che compongono la raccolta è un colpo di mortaretto: quel boom esploso in aria quando è ancora giorno, prima che la festa inizi. E basta quel fuoco, chiamiamolo, di cannone, perché tutto cambi: tutto ciò che prima era aria indifferente di giornate feriali, il cuore sente essere diventata qualcosa di non comune. Sentiamo l’odore della festa, la trasfigurazione delle ore.

Non sto qui a rovinare la sorpresa al lettore, basta solo dire che i quartieri, come le città, nominalmente non esistono. Non esiste Librino, non esiste Roma, non esiste il Testaccio, non esistono i luoghi per quello che dicono siano, perché non sono, ma divengono. Ogni generalizzazione, ogni discorso intorno ai luoghi abitati sono ragionamenti che raccolgono condanne, felicitazioni e anche bugie, falsi scultorei. Essi hanno un passato, spesso un mito da difendere o da cui affrancarsi, un pretesto politico, una volontà edificante o denigratoria, e dunque una città, un quartiere non è mai uno spazio definitivo, ma proiezione del possibile. Un possibile irredimibile oppure felice, distopia e utopia. Poi esistono gli individui a cui si contrappone la collettività senza testa. Quando il protagonista del racconto dice quel che dice, facendo disperare l’amico giornalista, afferma la verità, una delle possibili verità che possono essere raccontate quando ci si imbroglia a fare i realisti.

I luoghi non esistono, ma diventano: esistono le persone che abitano uno spazio, e lo spazio si trasforma, le persone viaggiano, nascono e ritornano, angolo dopo angolo. I luoghi non rimangono lì, fermi, anche se hanno lo stesso volto: cambiano il sangue, gli organi vitali. I pregiudizi intorno la vita delle periferie sono assordanti e sempre gli stessi. Ed ecco che pensare il presente come un’estensione radicale del possibile, del mito e del domani, di un progetto, di un futuro, è già definire un contorno, una confine entro cui s’accamperanno immagini inedite e luminose.

©FrancescoGianino

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