Il racconto Nella colonia penale di Franz Kafka è davvero crudele e spaventoso. E non per ciò che si legge sin dalle prime pagine – la descrizione della macchina della morte – ma per come, nello sviluppo, la verità acquisisca una luce spietata e reazionaria. L’inscrizione sulla pelle della legge, tortura e illuminazione nel dolore, sembrerebbero la rappresentazione di un sistema sociale o statale che persegue strade limacciose e disumane pur di affermare una umanità o una speranza di verità; tolto il rapporto sadico tra potere e subordinato – legge e disobbedienza – qualora la giustizia cominci ad essere giusta e democratica, subentra il caos, il disordine manipolabile dalla rivoluzione: una nuova burocrazia in cui la giustizia diventa violenta, irrituale e incomprensibile. Il viaggiatore, responsabile di questo ribaltamento, non vuole continuare la rivoluzione, e lascia l’isola.
Kafka forse vuole dire che, dal suo punto di vista, l’umanizzazione dell’amministrazione della legge, le forme di democrazia o potere al popolo, sono una discesa verso il caos in cui il carnefice diventa vittima, e si elimina un sistema per istituirne un altro in cui all’individuo, nella sofferenza, è tolta la possibilità di vivere una propria verità.
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