PER UNO SCIASCIA DOSTOEVSKIANO

di Marco Trainito

Nel 2021, com’è noto, ricorrevano due importanti anniversari letterari: il bicentenario della nascita di Fëdor Dostoevskij e il centenario della nascita di Leonardo Sciascia. Assai opportunamente, pertanto, la studiosa siciliana Antonina Nocera ha dato alle stampe già nel marzo del 2020 un breve e denso saggio in cui è tracciata un’ipotesi interpretativa su certi echi dostoevskiani nell’opera di Sciascia. Il volumetto, edito dalla casa editrice Divergenze di Pavia, si intitola Metafisica del sottosuolo. Biologia della verità fra Sciascia e Dostoevskij ed è arricchito da una prefazione di Antonio di Grado, direttore letterario della Fondazione Sciascia, e da una postfazione del critico letterario e cinematografico Federico Fiore.

Il punto da cui Nocera prende le mosse per la propria analisi è il passo de Il contesto (1971) in cui l’ispettore Rogas, perquisendo la casa di un sospettato, il già condannato e poi assolto per uxoricidio Cres, scorge tra le altre cose “il terzo ed ultimo volume di una edizione popolare dei Fratelli Karamazov” sul tavolinetto a lato del letto matrimoniale (cfr. Sciascia, Opere 1971-1983, Bompiani 2001, p. 36). Una citazione esplicita, come si vede, che non può non attirare l’attenzione del lettore che ama gli ammiccamenti intertestuali. E Nocera, di fronte a un’esca così ghiotta, costruisce una precisa ipotesi di lettura che si muove su due strade per portare alla luce alcune connessioni tra i due autori: «[l]a prima, finalizzata a inquadrare ne Il contesto oggetto di studio, il passaggio in cui l’autore cita Dostoevskij e tracciare un percorso di senso; l’altra, orientata a stabilire un’intimità più profonda tra i due autori, rintracciabile in alcune analogie tematiche sotto forma di chiari indizi» (p. 5). In questo modo Nocera delimita il campo di indagine a un confronto tra Il contesto e I fratelli Karamazov in quanto romanzi polizieschi così peculiari da sfuggire a molti dei vincoli principali del genere, senza naturalmente dimenticare Delitto e castigo, che del romanzo poliziesco è tra i modelli ottocenteschi più alti. Lo stesso Sciascia, del resto, nel saggio di Cruciverba (1983) intitolato “Breve storia del romanzo poliziesco”, come ricorda anche Nocera, citerà Delitto e castigo in un inciso parentetico come “grande romanzo poliziesco” in cui l’autore non ha potuto fare a meno della psicologia, contrariamente, per esempio, al Poe de I delitti della rue Morgue (cfr. Sciascia, cit., p. 1187). Più in dettaglio, Nocera individua le seguenti simmetrie relative ai personaggi: 

  1. Cres, con la questione della libertà originaria perseguita fino alle estreme conseguenze del delitto (Raskol’nikov);
  2. Riches e la svolta nichilista (Grande Inquisitore);
  3. Nocio e la ribellione interiore (Ivan Karamazov) (p. 23).

Fissate così le coordinate testuali e gli elementi narrativi da sottoporre a un raffronto sistematico, Nocera illustra in maniera puntuale i nessi che è possibile scorgere tra i due autori sul terreno di una vera e propria filosofia del romanzo poliziesco, pur nella ineludibile diversità dei loro personali stili intellettuali. Entrambi i romanzi, infatti, contengono una precisa messa in discussione della logica dell’investigazione giudiziaria, visto che in essi è in opera una giustizia tutt’altro che trionfante nel nome della verità: in Sciascia lo stesso ispettore verrà ucciso, sprofondando nel gorgo torbido del punto di convergenza tra la ragion di Stato e quella “di Partito” (cfr. Sciascia, cit., p. 94), mentre in Dostoevskij le minuziose indagini sull’assassinio di Fëdor Pavlovič Karamazov e il teatrale processo al figlio Dmitrij sfociano in un clamoroso “errore giudiziario”, come recita il titolo del dodicesimo e ultimo libro del romanzo. In tal senso, sia Dostoevskij che Sciascia si servono del romanzo poliziesco come mero pretesto, peraltro sottoposto a critica implicita, per parlare d’altro, ovvero per esibire una vera e propria “metafisica del sottosuolo”, sia quest’ultimo quello proprio della psiche umana, come nel primo, sia esso quello del “contesto” opaco in cui opera il potere della politica e delle istituzioni corrotte, come nel secondo. E al fondo di tutto Nocera individua un’affinità nell’idea stessa di letteratura che i due autori perseguono, dal momento che in essi è in opera «la naturale attitudine a considerare la scrittura un metodo di indagine sull’uomo, inteso come unità misteriosa su cui è impossibile mettere un punto definitivo» (p. 3).

Il libro di Nocera, per via anche della sua concisione, stimola la voglia di proseguire il discorso da lei intrapreso. Per esempio, è impossibile per il lettore resistere alla tentazione di prestare ascolto al richiamo di una sirena nascosta sotto il testo e mai evocata. È ben noto, infatti, che Dostoevskij irromperà fragorosamente nell’opera letteraria di Sciascia in quel mirabile giro di capitoli di Candido ovvero Un sogno fatto in Sicilia (1977) in cui viene chiamato in causa il tartuffe Fomà Fomíč de Il villaggio di Stepànčikovo e i suoi abitanti. Questa volta, infatti, non si tratta della semplice e allusiva citazione del titolo di un romanzo, perché Sciascia entra nel senso profondo e profetico dell’opera satirica di Dostoevskij. 

Rievochiamo l’occasione della citazione. Candido offre gratis al Comune un proprio terreno che si trova nel luogo individuato per la costruzione di un ospedale. Tale decisione inaudita mette in crisi il “gioco” di interessi e tangenti tipico di queste operazioni politico-amministrative, per cui i politici rifiutano l’offerta e scelgono un altro terreno edificabile. A questo punto Candido partecipa a un’assemblea del Partito Comunista in cui contesta la decisione e lancia accuse, spingendo addirittura il segretario a intervenire. Il passo del finale del capitolo 17, in cui sono descritti l’intervento straordinariamente ipocrita del segretario e la replica memorabile di Candido, merita di essere letto per intero (in Sciascia, cit., pp. 420-421)

Si alzò a parlare il segretario. Un lungo discorso sulle cose del paese, sulla visione che il partito ne aveva, sul modo in cui il partito operava l’opposizione, la critica. Ogni tanto, sapientemente, dava un colpo a Candido: al suo esibizionismo, al suo amor proprio, alla sua condotta, al suo non tener conto degli avvertimenti del partito.

Tutti guardavano Candido, ogni volta che il segretario più o meno direttamente lo colpiva. Candido era tranquillissimo. Quando il segretario finì di parlare, poiché pareva che tutti si aspettassero dicesse qualcosa, Candido disse soltanto: «Compagno, hai parlato come Fomà Fomíč». E veramente soltanto questo aveva pensato, mentre ascoltava il segretario.

«Come chi?» domandò il segretario.

«Come Fomà Fomíč».

«Ah» fece il segretario. Sembrava sapesse chi era Fomà Fomíč. Invece, per due giorni si sarebbe arrovellato su quel nome.”

A questo punto scatta nel partito l’affannosa e ridicola ricerca di questo Carneade, perché si sospetta con terrore che possa essere qualcuno “dei tempi di Stalin, dei tempi di Beria” (ivi, p. 422). Si consultano libri di storia, archivi, cronache, i vertici del partito e persino l’indice dei Quaderni dal carcere di Gramsci. Niente. “Finalmente, dopo due giorni, un professore di letterature slave sciolse il mistero: Fëdor Dostoevskij, Il villaggio di Stepàncikovo e i suoi abitanti; romanzo umoristico; 1859. Esisteva una traduzione italiana? Esisteva, rispose il professore nuovamente interpellato: pubblicata a Torino nel 1927” (ivi, p. 423).

L’importanza di questo omaggio intertestuale a Dostoevskij, che Sciascia ricama con somma maestria satirica e che si collega alla “ragion di Partito” del finale de Il contesto, e dunque al saggio di Nocera (in cui tale finale sulle ragioni dell’uccisione di Rogas è riportato testualmente: cfr. p. 16), è confermata da una circostanza esterna. Nel 1981, naturalmente con la regìa dello stesso Sciascia, Sellerio propose una nuova traduzione del romanzo di Dostoevskij (che resta ancora oggi tra i meno noti). Il risvolto di copertina, di mano anonima ma a ben guardare inconfondibile, contiene sia l’ovvio riferimento al Candido sia l’inquietante chiave di lettura proposta da Sciascia, che chiama in causa i peggiori incubi del Novecento, ovvero tutta la “metafisica del sottosuolo” del potere e della politica che Il villaggio di Stepànčikovo contiene in nuce

“A parodia del famoso incipit di un capitolo dei Promessi sposi – «Carneade! Chi era costui?» – nel recente racconto di uno scrittore italiano corre ad un certo punto la domanda «Fomà Fomìč! Chi era costui?»; e vi si svolge una grottesca ricerca dell’identità del personaggio. Che è poi il protagonista di questo «romanzo umoristico» di Dostoevskij, ma assunto dallo scrittore italiano a prefigurazione, premonizione e simbolo dello stalinismo. Il libro è del 1859. Probabilmente, Dostoevskij lo scrisse a caricaturare uno di quei letterati inconclusi e inconcludenti, prepotenti ipocriti e parassiti della società aristocratico-borghese della provincia russa, che non mancavano nel suo tempo come non mancano nel nostro. Ma crediamo valga la pena di provare a leggerlo nella chiave del senno del poi, a fronte degli avvenimenti tragicamente grotteschi o grottescamente tragici che l’intolleranza ha generato dal suo secolo al nostro”.

©Mtrainito

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