Fame blu, Di Grado

Due tre chiodi, conficcati a colpi di martello sulla parete, per farne una croce e appendervi un corpo che al terzo giorno si risveglia. È un romanzo musicale nella struttura e nella retorica, quindi poetico. Un’opera post minimalista. Materiale linguistico come lenti per osservare uno spazio e plasmare il proprio immaginario. Più che nell’intreccio e nella trama la storia si fa concreta per un accumulo ripetitivo e variato di un’unica tensione ossessione tematica: il corpo e la sua sopravvivenza. Un horror abitato da zombie e sostanze artificiali. I pochi angoli di luce che la dinamica della relazione sentimentale regala – lo scintillio della lotta d’amore – sono rabbuiati dalla compresenza di oggetti ed esistenze spente: cose che stanno dove stanno inerti per essere consumate, usate, sfruttate, svuotate di vuoto. Il cibo non restituisce più energia e vita, ma malessere e gonfiori. Tutto questo è quello che rimane dopo il trauma, dopo l’evento catastrofico.

L’ostinazione a collocare nello spazio letterario segnali di spaventosa sopravvivenza è il martello che con rigore inchioda alla parete il corpo fino alla testa per rimodellare l’esperienza della luce nella dimensione del buio. Sulla superficie, come da un mare violaceo in ogni suo grado di sfumatura, emerge la città di Shangai, tra reportage e spirito documentaristico. Allora il sogno incubo della vittima carnefice straziata da un “prima” e sradicata in una post-esistenza, ha uno sfondo di attualità: interessi culinari, antropologici, artistici, linguistici, mitologici spumeggiano sulla cresta dell’onda.

C’è nel romanzo, per concludere, un uso cumulativo della similitudine; e poi una grande rimozione. Non ci sono uomini, se non larve sdentate e ferine. Ad eccezione di un dildo e dello specchio funebre della protagonista, ovviamente.

©francescogianino

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