To the lighthouse, Virginia Woolf 

di Agata Pappalardo

Nel 1925 Virginia Woolf afferma molto chiaramente che la parola “romanzo” non le appare adatta per descrivere i suoi lavori; lei piuttosto avverte l’esigenza di appropriarsi di un nuovo termine che colga più efficacemente la sua scrittura, così le viene in mente di usare il termine “elegia”.

Al faro vuole proprio essere un’elegia indubbiamente rivolta al faro di St. Ives dove Virginia trascorreva da bambina le vacanze estive. È opportuno ricordare che la preposizione to in inglese non indica solo un moto a luogo, ma è anche un dativo, dunque introduce un complemento di termine, un’offerta rivolta a qualcosa o a qualcuno. Ecco che l’oggetto a cui si rivolge Virginia in tono elegiaco è il faro.

Il faro si staglia in verticale sulla massa marina orizzontale dei ricordi d’infanzia, dunque il romanzo si configura come un’elegia rivolta alla memoria, nella consapevolezza che, in questa disposizione dello spirito, “la vita tornerà con un’aggiunta di senso” (N. Fusini, Commento e note ai testi. Al faro, ne I meridiani. Virginia Woolf. I romanzi, Mondadori, 1998). Del resto, il significato lo si raggiunge sempre così, a distanza di anni; si approda al senso del passato quando se ne sono prese le distanze e il passato appare un atollo della nostra coscienza. 

Virginia aveva programmato di mettere al centro del romanzo la figura del padre, ma come spesso accade durante la stesura, si accorse che avanzava sulla scena la figura della madre, Julia Stephen, che risulta perfettamente ricostruita nel personaggio della signora Ramsay. 

La sorella Vanessa è stupita (“un’impresa creativa che ha del miracoloso”, scrive dopo aver letto la prima stesura del romanzo) da come ciò sia potuto accadere, dal momento che la madre muore quando Virginia ha solo tredici anni. E Virginia risponde all’osservazione della sorella scrivendo: “Credo che si elabori a partire da un embrione”, ma cosa poi accade a quell’embrione originario è “un enigma di psicologia”. Virginia confessa ad un amico: “il processo dello scrivere resta un totale mistero per me”. Si conferma così quel carattere assurdo della scrittura che è intrattenimento a colloquio con i fantasmi, creazione di un ambiente in cui “il morto e il vivo si scambiano inchini e si prestano l’un l’altro le proprie visioni”. 

Il titolo è correttamente interpretato se si intende il faro come la sorgente di luce che illumina il cuore e la mente della signora Ramsay. Esso è simbolo del femmineo in quanto luce morbida e liquida che bagna l’isola e feconda i suoi abitanti, i suoi osservatori; ma anche del virile che, eretto, domina. 

Nel gioco serissimo della scrittura, personaggi, fantasmi e controfigure descrivono intrecci. La signora Ramsay rappresenta probabilmente la femminilità nel suo grado più alto e puro. Si accostano a lei, quasi in una danza arcaica tra dee, sacerdotesse, ancelle e demoni minori, figure come Minta Doyle, frivola ed eccessiva, Prue, della stessa alta qualità della madre, la donna artista Lily, deuteragonista nel dramma, la donna vergine, la donna che non è madre, ma che è altrettanto vestale della complessità femminile, ma anche Cam, Nancy, le governanti che rimettono a posto la casa prima del definitivo tracollo. 

Ma tra tutte, solo la signora Ramsay, che si lascia fecondare dalla luce del faro ed è essa stessa luce, rappresenta la redenzione dalla zona d’ombra, dalla confusione, dalla mancanza di senso; è la donna che “vede e sente le forze disgregatrici del caos che sconvolgono il mondo e trionfano su quanto ci circonda; ma si concentra, si raccoglie, e ritrova in sé la potenza cosmogonica del bene. E letteralmente fa rinascere il cosmo, (…) è la grazia che fa che le cose siano umane [tanto che], quando scompare, c’è il caos”. 

Queste funzioni simboliche riconosciute alla signora Ramsay sembrano essere perfettamente in linea con le categorie culturali della classicità greca cui spesso la Woolf allude: il mito edipico che pervade tutto il testo, innanzitutto, quello di Demetra e Core-Persefone a proposito dell’inquietante intreccio tra vita e morte che scaturisce dall’unione nuziale, le Parche che lavorano con ago, filo e forbici, come la signora Ramsay lavora in penombra alla sera alla luce del Faro, la coincidenza della sua presenza con il kosmos e della sua assenza con il kaos, le forza universali di Amore e Odio di ispirazione empedoclea, così come il tema della “simpatia” rivendicata dal signor Ramsay nei confronti di sua moglie. Si ricordi che Virginia Woolf, negli anni di composizione del romanzo, è appassionata lettrice dei Prolegomena to the Study of Greek Religion dell’amica Jane Harrison.

Ma qual è il significato di questo romanzo? Cosa voleva dire l’autrice, cosa esplora e in che modo? “Non volevo dire niente col Faro”, scrive Virginia Woolf all’amico Fry.

Comprendiamo come la Woolf non si prefiggesse una rappresentazione oggettiva della madre (anche Lily dipinge per suggestioni non con intenti realistici); Virginia cerca di descrivere disperatamente qualcos’altro. Lei stessa si riconosce un talento: “il dono di sentire (…). Io ho un senso così acuto di qualcosa” che coincide con la “coscienza di ciò che io chiamo realtà: qualcosa di astratto (…) oltre il quale non c’è nulla che conti; in cui io riposo e continuerò a esistere. Questa cosa qui io chiamo realtà. E a volte mi immagino che sia la cosa che mi è più necessaria: la cosa che cerco”. Qualche mese prima aveva anche scritto: “Ho il senso straordinario, stupefacente di qualcosa che è qui, che è la cosa (it). Non è esattamente la bellezza che voglio dire. Voglio dire la cosa in se stessa, che è tutto; soddisfacente, completa”. Virginia cerca la totalità, il non-luogo della totalità della vita, una dimensione con un’altra unità di tempo, priva della consuete caratteristiche fisiche; spesso lei scrive “la vita è la mia questione”, ma per lei la vita non è il luogo comune dell’esistenza, anzi per raggiungerla, toccarla, descriverla, sa che deve separarsi dalla vita comune: “devo uscire dalla vita” per entrare nella realtà, “quando scrivo sono semplicemente una sensibilità”. Dunque, per una corretta lettura di questo romanzo e della poetica della Woolf sembra necessario seguire questa traiettoria: la ricerca della vita nella sua totalità oltre la realtà fisica, il potenziamento della sensibilità, la maturazione della consapevolezza che a questa cosa (it) non si giunge seguendo i passi degli scrittori realisti, ma la si coglie nel silenzio perché poi possa essere tradotta in scrittura, in parola. 

Risulterebbe estremamente riduttivo ed improprio intendere la sensibilità di cui parla Virginia a proposito di sé come quella propensione femminile alla impressionabilità che in qualche modo deriverebbe da difetto di capacità logica; la sensibilità di cui parla è piuttosto “l’intuizione ricettiva pura, cui lei giunge attraverso la disciplina del silenzio, e l’esercizio della sua arte”. In un severo silenzio mentale, come la signora Ramsay a sera si lascia illuminare in solitudine dalla luce del faro, Virginia riesce ad estinguere la sua personalità e a mettersi in contatto con un suono mai udito che si sforza poi di tradurre con il linguaggio. Come se con la scrittura si mettesse in cammino verso un ignoto mondo sovrasensibile, un altrove. Anzi, per precisare, è come se il viaggio di andata si dovesse compiere fianco a fianco al silenzio, la discesa, il ritorno verso gli uomini, necessariamente accompagnandosi al linguaggio. Virginia è certa di non possedere il dono della descrizione realistica, ma lei non è alla ricerca di ciò che è visibile ad occhio nudo e dunque suscettibile d’essere descritto, infatti scrive: “Io de-sostanzio apposta, in un certo senso, perché non mi fido della realtà – che sia così a buon mercato. Voglio andare oltre. Ma ho il potere di esprimere la vera realtà?”. A mio giudizio sono presenti quegli elementi filosofici che consentono di parlare di un vero o proprio dualismo parmenideo-platonico: una sfera dell’essere sensibile, che tuttavia non è la vera realtà perché mediata ed imperfetta, una sfera superiore intellegibile di purezza ontologica, che è invece pienamente essere e realtà; allo stesso modo, Virginia sembra relativizzare le capacità del linguaggio riducendo la scrittura dei realisti a chiacchiera, la sua impresa letteraria, invece, difficile e non comune, a voce dell’universale. 

Quella pura sensibilità che Virginia sostiene di essere nell’atto della scrittura non è altro che il suo io alle prese con la facoltà in cui eccelle ovvero l’intuito, l’immaginazione intesa quasi kantianamente come intermediaria tra sensibilità e intelletto. L’esperienza nel mondo contempla primariamente la sensibilità e l’incontro di questa con le categorie dell’intelletto; in ciò si esaurisce propriamente l’intelligenza umana. E come per Kant l’immaginazione produce schemi che consentono la funzionalità delle categorie alle prese con l’intuizione sensibile, allo stesso modo per Virginia la parola è lo schema che consente la comunicazione tra la sensibilità e l’intelletto alle prese con il suono di un altrove che sfugge ai sensi. 

Nella scansione del romanzo nei suoi tre tempi, emerge dolorosa quella inevitabile contraddizione per cui la figura materna, con la sua forte fisicità, funge da protettivo rifugio che accoglie, ma che  al tempo stesso trattiene e immobilizza l’azione, lo sviluppo dei personaggi che ruotano intorno a lei: Lily completa il suo quadro, Ramsay approda al Faro dopo la morte della signora Ramsay. La stessa Virginia, in occasione di quello che avrebbe potuto essere il novantaseiesimo compleanno del padre scrive nel suo diario che sia stato un bene che non ci sia arrivato: “La sua vita avrebbe del tutto distrutto la mia. Che sarebbe accaduto? Niente scrivere, niente libri. Inconcepibile”; il pensiero associativo va a Sartre che scrive: “Se fosse vissuto, mio padre si sarebbe steso sopra di me e mi avrebbe schiacciato. Per fortuna è morto prematuramente. (…) Sottoscrivo volentieri il verdetto di un eminente psicanalista: io non ho un Super-Io”; ed è proprio questo, questa immunità ai blocchi che derivano dall’introiezione delle figure genitoriali, in un’accezione psicoanalitica che resta aperta, a rendere completamente liberi.

Ma c’è qualcos’ altro che rende veramente liberi ed è “l’atto necessario” del mettersi a colloquio con i propri fantasmi e con le proprie assenze; si tratta di riconoscere il dolore ed imparare a sostenerlo perché da qui nasce lo slancio, non solo estetico ma anche esistenziale, e Lily e Virginia vi riescono, per concludere l’opera o per approdare finalmente allo scoglio del Faro dopo aver navigato nei marosi del tempo e della memoria. 

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