
Nel primo capitolo de Luna e i faló Cesare Pavese s’inventa un paragone interessante. Il paese dell’infanzia, dopo una lunga assenza, mi faceva l’effetto di quelle stanze di città dove si affitta, si vive un giorno o degli anni, e poi quando si trasloca restano gusci vuoti, disponibili, morti. Il protagonista di nome Anguilla è uno sradicato. Nella vita è stato un po’ qui, un po’ lì, ha cambiato i luoghi dell’esistenza – Genova, poi in America – e non ha partecipato al cambiamento dei luoghi: dopo tanto tempo ritorna in paese e lo trova uguale nelle forme, ma cambiato nel sangue che vi circola.
La lingua di questo Pavese ha una cura al cantabile, mi sembra un tono elegiaco (Così mi misi per il prato e costeggiai la vigna, che tra i filari adesso era a stoppia di grano, cotta dal sole), che mescola il letterario a espressioni che non saprei come definire – più sbrigative, ad imitazione del parlato – rimescolando moduli veristi. Un effetto di spigoli e piallature.
Poi c’è questo discorso sul luogo geografico delle radici, e sulla dispersione che è di una attualità fortissima per quanti partono e tornano solo per le vacanze. Ad ogni vacanza il paese è sempre più scostante, per la sua strada, e si porta via anche l’idea di comunità che nutriamo nella memoria. Finché un giorno non riconosciamo più nessuno, e gli amici del tempo sembra parlino un’altra lingua fatta di altri interessi, altri luoghi comuni.
Anguilla ha la necessità di ritrovare un luogo che sia in armonia con la memoria, un luogo dove stare, non perché naturalisticamente bello ma perché ci si ritrova con la gente che vi abita. E tornare in paese invece è come rientrare dopo venti anni nella stessa casa d’affitto. Un guscio vuoto perché la vita se ne è andata da un’altra parte, e le pareti sono solo pareti. Con qualche ricordo ancora appiccicato per nostalgia, ma senza più alcun legame col presente.
Curioso per l’apparente stravaganza è poi un raccontino di Gianni Celati dal titoli Gli aeroporti. Questo l’incipit: Da molto tempo ormai non aveva più una lingua propria con cui parlare e scrivere. Un lavoro svolto unicamente con parole tecniche d’una lingua straniera, in un continente dove non era mai riuscito a capir bene cosa gli altri dicessero, aveva creati il paesaggio definitivo del suo volto e la musica lenta della sua voce. Continua poi il primo capoverso in cui è anticipato il finale: lo studioso naturalista è tornato nel paese d’origine, ma si trova a suo agio soprattutto negli aeroporti, dove sembra di stare in compagnia con altri che nutrono le stesse mete. La meta sarebbe un’esistenza chiara alla luce della ragione. E questa cosa qui si trova solo nei libri. Non appena un luogo rivela la propria diversità, scorbutica diversità, invita a sloggiare e ci potremmo prendere subito l’aereo per un’altra destinazione.
Anche in questo Celati si parla – ironicamente – di sradicamento. Il naturalista di contro Era sempre incantato dalle stelle, perché le stelle vivono al di là della Triste Storia umana che falsifica con la lingua tecnica il mondo. E si sente in comunità con chi non ha intime certezze pur impostando la vita su di esse, e se le fa durare il tempo di un viaggio. Vedendo attraverso un vetro gli altri passeggeri avviarsi in fila su una pista verso un aereo, ogni volta gli era parso fossero sfollati che si decidevano ad affrontare il viaggio solo perché da quest’altra parte del vetro non restava loro più niente da fare o da dire, come a lui, e come lui già sottomessi al loro destino di viaggiatori o turisti perpetui.
L’immagine del turista perpetuo mi fa pensare a tutti i luoghi, le città, che sempre più simili tra di loro, offrono soggiorno a chi, trovando un compromesso con la propria comunità d’origine, si relaziona usando una lingua tecnica (la lingua del turista) per fruire di servizi internazionali, per vivere da sfollati in un luogo di tutti, democraticamente e razionalmente organizzato per accogliere tutti.
©fg