Nosferatu non esiste, Accardi

Nosferatu non esiste - Andrea Accardi - Libro - Arcipelago Itaca - | IBS

Poesie raccolte intorno ad alcune idee ricomposte in maniera romanzesca dal titolo Nosferatu non esiste (Arcipelago Itaca 2021). Il lettore intanto si sposta tra diversi luoghi, dalla ragnatela delle quattro pareti di una casa patria, fino a Bruxelles, nel comune di Molenbeek-Saint-Jean. Il luogo di partenza potrei immaginare essere la luce della Sardegna, i paesi che finiscono in spiaggia. Azzardo l’omissis: Cagliari. Poi spadroneggia Palermo, e la spiaggia senza tempo e vacanziera di Mondello. Per somiglianza altre spiagge benché provinciali suggerisce ai miei ricordi questa toponomastica: quelle del ragusano, così alla moda e vampirizzate da geometri e villeggianti, quanto desolate in eterna giacenza extra umana (sole, pineta, sabbia, mare, pescherecci all’orizzonte, erba infestante nei vicoli più stretti, qualche petroliera come vascelli d’esistenze eroiche fluttuanti, fabbrica ex di ex mattoni in una ex vita) che fanno sentire noi umani davvero come le formiche in una ipotetica (o reale) canzone di Battiato: vanno e vengono per ferragosto, s’attendano, e non sanno perché mettere casa sulla sabbia per una notte, trovare patria e libertà sotto le stelle tra il comune far finta di niente.

Una due poesie dedicate a Venezia. Accardi si sarebbe vestito da Dracula, ha montato i denti, quelli di una volta coi canini bianchissimi in plastica che non mordono, e per la cerimonia d’inaugurazione della festa mascherata si è portato didietro da Mondello una borsa di ossi di seppia da contro smerciare all’allegria: recita sbirciando sul palmo della mano alcuni versi ambientando visite non più tra dirupi liguri o spiagge in carrozza e fuochi d’artificio, ma nei luoghi e nelle case dell’erranza, nel castello di Atlante con anello al dito: svuotato dalle distrazioni, impietrito dallo specchio di Perseo. La polpa se l’è mangiata il ragno dell’infanzia, attaccata alla ragnatela dei sogni: la vita nel suo primo accadere brillava nella luce del significante.

L’ossessione per la catastrofe, la morte metaforica, la seduzione della rovina, è materia contemporanea (penso ad Antonio Lanza oppure alla prosa di Viola di Grado). Il tema dell’infanzia o giovinezza, l’età delle illusioni, è leopardiano e del più leopardiano del Novecento, Sandro Penna. Pascoli, ovviamente, con linfa mortuaria. Ma Pascoli è stato un vero Nosferatu: dove metteva i denti incideva vita morta. Amalia Rosselli, la draculessa per eccellenza: addenta, succhia il veleno dell’amore, e rema verso l’isola dei morti palpitando lapsus di desideri.

Accardi, non è Nosferatu. Questa giovinezza della colpa felice si addice a un temperamento leopardianamente postumo, così come emerge in queste poesie concepite in un tempo già concluso.  E persiste un gesto di resistenza e rifiuto. Tutto è in rovina, anche la casa patria. Si salvano le poche manifestazioni spontanee extra umane, le giacenze, le leggi di natura, l’onda che si increspa e rivela isole di morti. Viene il sospetto di un lirismo sovrastimato, aggiunto. I morti non sono mai morti, ma altri vivi senza patria che abitano per necessità castelli sfatati. Un trasloco dall’età dei sogni alla storia, cioè il tempo della responsabilità o della costruzione, provoca un mutismo apocalittico. Tra il centro della tela e il disegno c’è una cornice, i vetri aguzzi di bottiglia. Tra la polpa e le ossa, c’è un muro: mordiamo il muro; credevamo di essere piccoli Dracula inglobati nella santa vendita e acquisto: sorbiamo la vita dalla cannuccia. Nulla è più vero del buco da cui siamo venuti alla luce. Il divenire ovunque sempre se stessi è una fandonia postindustriale. Mi ricordo quell’incipit paesologico del poeta piemontese… Ma è sempre un’impostazione pessimistica, più pessimista di Leopardi. Potremmo essere dappertutto morti che si uniscono ad altri morti sperando di risuscitare una vita e ricominciare l’infanzia dall’amore (romanticismo alla self-made man). Ma il poeta sarebbe in fase recanatese (rimembri ancora). La vita nel ricordo, in giardino, il presente è un borgo incomprensibile e selvaggio. Ma ci siamo spostati a rimpiangere la ragnatela e le regressioni Kafkiane, perché i giardini sono stati trasformati in asfalto o luoghi della ricreazione pubblica.

La casa di Montparnasse attorniata da morti, e sulle pareti lo spaurazzo dei topi che dicono essere numerosi a Parigi. Topi, peste, morte, ma quella vera, nera, con la falce e il mantello nero, senza metafora.

Cartello stradale: la vanità del tutto, e la verità della verità. Leopardi forse lo sapeva, senza l’illudersi: criticava le sorti progressive della scienza. Noi invece ipotizziamo padre pio e l’ubiquità. A Leopardi non mancava un gesto eroico un po’ beethoveniano di chi, al freddo e malato e senza soldi, inveisce contro la moda e la società. Leopardi un altro vampiro: già morto s’innamorava, addentava contesse, viaggiava in cerca di sangue e andò a vivere nelle adiacenze di una vulcano morto finto: cercava l’infinito tra le ginestre, inginocchiandosi, piacerebbe immaginare, sulla tomba di Vlad Tepes Dracula, facendosi incidere sul braccio un drago tra le viuzze malfamate di Napoli…

E noi? Tra città che fanno del vacante un marchio di successo? Il vuoto un divertimento? L’ubiquità nelle città a un tot capitalistico al mese altrimenti smammare? Le case in affitto e i loro padroni sanguisuga col conto in banca raddoppiato dalla rendita. E gli amici (noi stessi) della stessa pasta? Dov’è la patria? La metafora del cuore? Dissanguato dall’utile e dal conveniente, dalla pubblicità progresso eccetera eccetera…

Al Cartello stradale prendere per il cimitero, lì incontrerete Nosferatu non esiste, poco lontano vedrete anche il poeta paesologo che modula canzoni semplici semplici in cui amore fa rima con dolore, e un ramo storto è un sogno, la felicità il profumo dimenticato della merda delle vacche in stato di libertà.

©francescogianino

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