La campagna invisibile, su Pascoli.

Non saprei se in assoluto Pascoli sia sempre stato così avverso alla vita cittadina. Nei suoi versi non è rara la contrapposizione tra la voce della città e quella della campagna. La presenza di una voce presuppone un dialogo oppure un monologo. Ecco, in campagna avviene un dialogo strano; in città invece monologhi o, eventualmente, ci si scambiano informazioni a distanza, usando il telegrafo. La città è univoca, sorda, la campagna invece crea corrispondenze. I fili tremuli di rame, le rote ferree, le querule campane (in Solitudine, da Myricae), sono un repertorio di suoni cittadini o comunque una modernità caotica. La natura è una patria, la città un’avventura senza ritorno.

Così è il suono della città di Pascoli, dove le genti vanno inquiete e stanche senza trovare una soluzione ai conflitti. Conflitti non meno dolorosi in campagna, ma almeno tra fiori e alberi c’è sintonia, una confessione misteriosa a cui la poesia dà forma: è la solita vicenda di vita e morte. Le cavallette sole / stridono in mezzo alla gramigna gialle; / i moscerini danzano nel sole; / trema uno stelo sotto una farfalla. Basterebbe intonare l’armonia del mistero per riconciliare la vicenda del corpo con quella del creato.

La parola crea l’oggetto. Pascoli è maestro di poesie naturalistiche. Ma con difficoltà mi sembra che descriva davvero la vita del paese e della campagna. La miniatura è perfetta, una bomboniera. Ma la poesia della campagna nasce da una poetica di sottrazione. Quello che linguisticamente Petrarca fa con Laura e col sentimento della vanità, Pascoli lo realizza con la rappresentazione della natura. Nei fatti la sua poesia è sempre un’astrazione applicata a cose che cadono sotto i sensi (quando non codifica le cose all’interno di un sopra senso, la poesia diventa un bozzetto vivace ma qualunquista, moralistico). Per quanto così tanto umanizzata – tra rondini e rondinini – in questa campagna tanto avvolta dallo spirito selettivo petrarchista, non mi sembra ci siano volti umani. Figurine di lavandaie, zappatori e aratori: questo sì. ma non volti, non umanità. Per questo disinteresse quanto meno letterario nei confronti dell’uomo come è, non ci si poteva aspettare un elogio della città: ciò che nella città è distintivo è appunto la diversità umana. Il disinteresse per l’uomo – questo atomo opaco del male – toglie alla campagna il brulichio e la passione che meriterebbe: seziona e congela situazioni contemplative o emblematiche di un certo discorso traumatico. La campagna di fine Ottocento era invece linfa economica, luogo di passioni istintive. Al popolo la campagna, a d’Annunzio i salotti e le pose cittadine. E invece la campagna di Pascoli è fatta di ammonimenti segreti, alberi insetti, presagi, rondini, e figurine d’esseri viventi. È un salotto estetizzante. Vera presenza umana è lo scampanio frequentissimo e aereo, ma fatto evocativo di un’anonima folla che va alle feste o ai funerali. Quella di Pascoli è una campagna invisibile.

Se il linguaggio poetico si svecchia, non è nuovo il gesto poetico. La selezione operata darebbe dignità a quanto è umile, senza mitologie o altari – quindi non solo ulivi, allori, mirti, ma anche gramigna, cavallette, moscerini – tuttavia l’altare che si onora è quello di un’ossessione familiare: la campagna è abitata da veri fantasmi e morti, e poi uccelli e varietà biologiche. Si potrebbe obiettare che tutti i poeti scrivono infuocati da un’ossessione. E potrebbe anche essere vero, ma ciò non esclude che l’ossessione del nostro poeta , l’omissione o reticenza (condanna morale) o rimozione dell’intellegibile e semplicemente umano, degli uomini e delle donne come sono al di là del loro ruolo di madri o sorelle – per quello che nel fondo delle cose desiderano e vogliono essere – la rimozione è già ermetismo, e travestimento sentimentale (non immune da patetismo). Dietro questa malattia – virtù metafisica di irrealtà sentimentale di cui la poesia italiana da Petrarca a Leopardi si fregia, è eroico lo sforzo che Umberto Saba fece per raccontarsi. Pascoli imbastisce un processo contro ignoti e chiede il risarcimento per i danni subiti elevandosi ( elevato a motivo delle la sue ossessioni poetiche) a poeta immortale. Saba parla invece di una cosa che pubblicamente pochi farebbero senza travestimenti o esibendo presunte eccezionalità: racconta il desiderio. Lo aveva fatto il miglior Leopardi, col paravento di Petrarca. Saba va avanti, ne parla, senza simboli, e con lo sforzo di chi toglie velami all’occhio interiore, fino all’uso di una lingua vernacolare, per giunta: e Saba quindi parla dell’uomo parlando di sé e donando al lettore poesie fatte con le trite parole di tutti.

© fg

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