
Era agosto, in Andalusia. Fermammo l’automobile sul lato della carreggiata. Avevamo lasciato un paese tutto bianco, e ora in mezzo a un campo di girasoli anneriti dai raggi implacabili del sole ci scattammo una foto. Poi ripartimmo per Siviglia.
Montale nel 1923 scrive Portami il girasole ch’io lo trapianti. Misteriosa è l’identità dell’interlocutore a cui viene chiesto di irrompere nella vita buia del poeta e trasfondere in essa un’essenza di luce e vitalità. Del 1949 è invece la poesia A un girasole di Sergio Solmi, pubblicata nella raccolta Dal balcone.
Il girasole di Solmi è in vaso, e disfiora. È stato raccolto, allontanato dalla terra arroventata dell’agosto. Nell’aridità che scoppia, Solmi riconosce ancora un autentico motivo di felice contrapposizione: arsura e felicità: il girasole lieto affronta il raggio come la ginestra di Leopardi. Al passato, quando in un contesto di morte – arsura c’erano martiri ed eroi, subentra un presente in cui il fiore sfiorisce scerpato in salotto. Come non pensare alle nostre esistenze, quando i fiori sono di seconda mano, e sfioriscono finché non si esce all’aperto per andare incontro allo stesso deserto che ha invaso il vuoto delle case.
Montale recinge orti, coltiva apparizioni e improvvise pazzie nello spazio di un appartamento; Sergio Solmi coltiva la nostalgia dell’azione nel ricordo del furoreggiare di una vita più intensa.
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