
In Lavorare stanca leggo una poesia dal titolo Casa in costruzione. In Pavese sappiamo, bene o male, che le poesie, oltre ad avere uno slancio lirico, vivono di storie minime – cose che succedono, personaggi che parlano e agiscono. Così, nella poesia Casa in costruzione, si parla (se le poesie raccontano e comunicano qualcosa di preciso non perdono in dignità: se non sono pure e non imitano la musica, perseguono altri scopi. Il poeta Pavese scrivendo questi versi nel 1933 – in pieno ermetismo italiano – è un poeta quanto meno stonato. Eppure anche il Montale della Bufera racconterebbe segretamente storie di cui fa emergere creste, comignoli, cime aguzze…), in quella poesia si racconta di alcuni ragazzi che salgono sopra lo scheletro di una casa in costruzione, i pilastri sono a vista, non c’è tetto, i mattoni scoperti, le finestre vuote; i ragazzi stanno lì a guardare il cielo, salgono e scendono sui ponti, lanciano pietre, e non si capisce che altro facciano. Poi c’è un vecchio che sembra trascorra la notte al riparo dei mattoni che al caldo scottano. Dorme lì come fanno i barboni: corre i suoi rischi e s’accende di notte un fuoco.
Emerge nel testo un contrasto tra la vitalità dei ragazzi e la caparbia malmessa del vecchio. Ma quel vecchio non ha più una casa e si muove a fatica, è il commento del poeta che, in stile verista, dice lui ciò che pensa la gente che passando di là osserva i resti del fuoco e il vecchio a cui Certamente qualcosa gli accade là dentro, perché ancora al mattino borbotta tra sé.
La storia finisce qui (si dice che il vecchio ruba le zucche per mangiare e i ragazzi salgono e scendono per la struttura in costruzione, poi c’è un’improvvisa sassaiola contro il proprietario del cantiere). La scena (questa poesia è una scena di vita) si svolge nell’ora più ermetica della letteratura italiana: il meriggio. Nell’ora in cui tutto, oggetti e persone, sono fuori quadro, perdono un significato oltre al loro essere sbattuti dalla sferza del sole, trasfigurati in enigmi e ombre; nell’ora che il caldo fa impazzire persino le bestie (scrive Pavese), c’è qualcuno (e questo qualcuno non è il vecchio) che tocca la gioia del vivere; e questo qualcuno sono i ragazzi che si arrampicano e guardano il cielo incorniciato dai pilastri incolori del cemento. A richiamare Montale non c’è solo il meriggio, ma alcuni oggetti o verbi che fanno eco a quel paesaggio straniante: canneti, ombra, frusciavano, sole, mattoni, pietre, muri (tra i muri scalcinati, anzi grezzi, Pavese incastona le stelle), bisce, pozzo, bruciare, tremolare.
Tra queste cose invivibili Pavese ci mette il futuro, la giovinezza, la gioia, un uomo e una donna che si rotolano sul prato, un vecchio barbone che ruba le zucche e si rovina la salute sotto la rugiada di notte, e infine un padrone che prende le sassate in testa e interrompe i lavori. I corpi, i poveri, la gioia della speranza, il lavoro che abbrutisce e contro cui ci si ribella. Forse anche per questo, per questo non voler sembrare intellettuale e astratto, Pavese è letto, amato dai giovanissimi, più di quanto lo amino gli adulti.
©fg