Sono poesie legate tra loro dal tema della morte (Mondadori, 2015). Chi fa l’agguato alla vita è la morte, in guerra permanente con l’esistenza. Inizialmente si cerca un accordo col nemico, si fa una trattativa di pace, ma col tempo i patti vengono infranti e la morte intona la sua canzone in re, dominatore assoluto dell’universo. La minaccia dell’agguato, s’intende, le ferite di guerra, la morte di amici e affetti famigliari, segnano la vita.
Questo il tema dominante delle prime due sezioni del libro (Guerra di trincea e Incontri e agguati). La terza sezione (Alta sorveglianza) è affidata al racconto sempre in forma poetica di un femminicidio, articolato tra la voce di un professore, il poeta, che lavora presso il carcere di massima sicurezza di Milano – Opera, e la confessione dell’omicida già condannato. Gli incontri a cui fa riferimento il titolo dell’opera sono invece ricordi anche commossi di amici o famigliari; e prevale la luce della vita, quand’anche questa proietti ombre e ferite.
I versi del poeta sono pulitissimi, precisi, le immagini nette e mai reiterate, le analogie controllate: delegano alla meticolosa persuasione retorica un preciso contenuto, richiedendo attenzione di ascolto. Quanto sembrerebbe astratto invece è pregno di concretezza e senso.
I versi che seguono sono esempio di una rievocazione densa, e fanno rivivere uno spazio, un’azione, uno stato d’animo, una relazione.
Nel tintinnio delle colline
quando lottavi sul prato coi maschi
in una giovinezza di soli istanti
in un sussurro di finte schivate
ti guardavano i rami del tiglio
… oppure
hai camminato sul filo delle grondaie
ancora
… noi siamo
il frutto di un contrasto magistrale
che prepara giorno dopo giorno la lettera d’amore
Il ripetersi in più occorrenze il tema del gioco del calcio, così caro a Franco Loi, è memoria di gioia, speranza e vitalità. La seconda sezione accoglie poi qualche componimento dedicato alla compagna Viviana e all’amore, per esempio:
… e la freccetta piumata
volare troppo alta e noi due
diventare un puro iato
Il poeta non costruisce consolazioni o speranze d’oltre vita. Dolce niente chiama la giovinezza (quando tutto si diffondeva / dalle vaste novelle dei genitori) e cupo niente la morte, ustione del fiore reciso. E con la sua arte in punta di matita il poeta si definisce un povero fiore che si è aggrappato alla poesia. Nell’uso infine retorico della ripetizione o anafora emerge una forte commozione o partecipazione dell’autore, in contrasto con il solco controllatissimo della scrittura.
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