Il cavallo salato di Ippolito Nievo

Alessandro piega l’avambraccio e fa dimostrazione a Carlino del proprio tenore muscolare, al punto che per poco non fa scoppiare la cucitura della camicia, e aggiunge: «Io, vedi, mi son mantenuto così grazie alla mia previdenza. Ho ammazzato i miei due cavalli, li ho fatti salare e me li pappo a quattro libbre il giorno. Dopo sarà quel che sarà. Ma se vuoi entrar a parte della cuccagna…» Carlino fa presente che alla propria donna, La Pisana, il cavallo salato “non le conviene”, dunque convincerà l’amico a impossessarsi del gatto d’Angora, grasso e morbido, della padrona di casa, per cucinarlo e farlo passare per pollo d’India, aggiustandone il sapore con “sedani e cipolline”.  Il gatto viene sgozzato con le forbici che rimanendo insanguinate producono agitazione tra la portinaia, la cameriera e la padrona di casa, poiché probabilmente più che da affetto sono mosse dallo stomaco, pregando inutilmente di aver anche loro una porzione del piatto prelibato. Col tempo, poi, una volta che non è possibile reperire altri gatti o piccioni, Ippolito Nievo dice, con la voce di Carlino, che fu “ben fortunato di ricorrere al cavallo salato di Alessandro. Ma dàlli e dàlli, non ne rimasero che le ossa; e allora ci convenne far come tutti; vivere di pesce marcio, di fieno bollito e di zuccherini, dei quali era in Genova grande abbondanza”. Tuttavia, notasi bene, La Pisana, si ciberà solo di zuccherini, cosa che le donerà un certo buon colorito di viso, e rimpiangerà eufemisticamente parlando il buon pollo d’India, ben sapendo che carne di gatto era stato e non altro.

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uno

non è sicuro che abbia qualcosa da dire, ma la mia ragazza è davvero logorroica. per cominciare è lenta. Racconta quello che le capita giornalmente, niente di importante o di straordinario, cose da tutti i giorni, e lo fa con una lentezza snervante per chi ascolta, soffermandosi su particolari più inutili. Lo so,, adesso sto esagerando: esprimo giudizi, solo giudizi. Vorreste sapere cosa le sia capitato?Non è poi tanto importante, l’ho già dimenticato; ma quello che non dimentico è la sensazione snervante di lentezza, qualcosa di poco piacevole, e davvero ricordarlo è penoso per me.

primo maggio

Ci sono certuni, una maggioranza anagraficamente giovane, che annovera una vita vissuta ancora breve, a malapena un lustro di autonomia e indipendenza, ragionevolezza e sbagli. La conoscono l’esistenza a parole, in particolare le parole degli altri, quelle che accarezzano i loro stati d’animo e con sillabe e suoni. La vita che vivono non la conoscono, non è teoria o conversazione, ma pratica e corpo. Osservare un tale sopra un palco che canta cose già vecchie, e la sua posa è la più grande forma di vanità. E quindi stare dinanzi all’impostura delle imposture. Le menzogne più grandi appartengono ai coetanei, e il vento della moda del pensiero tira solo da una parte, un vento falso che fa stare fermi oppure sul precipizio. Non è un bel primo maggio, per alcuni. La nazione sta crescendo, è già in piena adolescenza, ci ha i brufoli e le crisi esistenziali. Le cose non si possono indicare come sono, parole parole come dire parola che è un fatto. Adesso, come i cantanti, anche gli scrittori e i parlatori hanno pose menzogne: è ora di cambiare marcia, impossibile trovare un futuro, questione insanabile, peggio di così non si può, mio figlio cerca lavoro, stanco di pagare le tasse, i giovani dei centri sociali, dare battaglia al governo, rivolta fiscale …

Spelonca

Corteggiando un’idea disdicevole allo scrittore, questa potrebbe apparire come confessione; la mente vaga tra prurigine e incanto. Di questi tempi è incantesimo sorbire immagini da scatola magica. Un ozio di febbre assale il comodo divano e smorza la lampadina di luce. Quel parto astratto, afasia di vergogna, sarebbe la libertà? Che sia anche quest’ombra di caverna che imbambola e sana ogni interstizio di esistenza?

Quod egimus certum est

Cosa serve per sbrinare il frigo? Basterebbe non tenere bassa la temperatura, alzare il tiro, riacciuffare quanto è rimasto sospeso in una bolla di temperatura ardente. Gatsby è un eroe romantico e assurdo. Un pazzo che s’inventa un’esistenza per riappropriarsi del passato. Il tempo scorre inutilmente, il passato è l’unica certezza. Sono cinque anni, cinque anni senza Daisy. Nel frattempo si è fatto ricchissimo, vive apparentemente da Trimalcione, ha assunto i valori di una società cinica e disinvolta: atteggiamento indispensabile per coronare il suo sogno puro e incontaminato. Qualcosa di struggente e incomprensibile sprigiona dalle pagine di Scott Fitzgerald, insofferenza e ammirazione per Gatsby, un insopportabile sbruffone, un delinquente esibizionista, eppure un idealista solitario e triste, una sorprendente anima superiore. Imbalsamare il passato edificando un tempio senza età, coltivare una memoria cieca e assurda, un accanimento contro la vita, questo fa Gatsby; così come la sua malinconica appartiene a noi che viviamo ruderi e campagne, che di vita hanno solo il ricordo della gioventù e degli anni trascorsi. La musica cambia, il tono è incomprensibilmente interrogativo. Quanta bellezza, questo mare, queste pianure, abbandonati e sognati. Ci vorrebbe un grande, magnifico, Gatsby, che faccia i conti coi propri sogni, e che non vada via, per fare l’amore con altri occhi. Noi siamo romantici e imbalsamatori, che vorremmo vivere stanze diroccate, con quel battito di cuore che scioglie lacrime di tempo andato. E pur sapendo quanti mostri crei la solitudine di un cuore desolato, il nostro amore continua a essere rivolto a scheletri e carcasse sfatte; come se avessimo facoltà di vedere fantasmi anziché ossa, sentire emozioni anziché odori. Daisy, la nostra Daisy, è cinica, falsa, una donna sconfitta e stanca, e il bene per lei non è la reincarnazione di un sentimento enorme, della giovinezza eterna; è farsi turista di se stessa.

Ecco che noi così disprezziamo Daisy per quanto sia possibile disprezzare la bellezza di una donna; e sentiamo profonda comunanza con Gatsby. Sappiamo di essere passato e che nulla come allora è talmente vero e genuino. Quod egimus certum est, e lì riposa la nostra divinità, tutto ciò che potrebbe dare senso all’esistenza. La vita è un continuo andare a ritroso, togliersi di dosso inganni e pose estetiche, e ritornare al punto in cui la via si è smarrita perché qualcosa di molto triste ci ha preso per mano per ricordarci chi non potremmo mai essere.

Discorso motivazionale

Un luogo di exiting celebrazione letteraria, uno di quegli spazi di nuvole in cui ci si sbrodola addosso, ovvero si tengono in vita affarucci clientelari, o lettori attaccati alla gonnella dell’autore di riferimento, una contropila di bestsellers ammucchiati proprio in fronte dell’ingresso di un centro commerciale libreria; di cosa voglio scrivere da questa lontana terra fatta di pomodorini e zucchine, un vento che tira e non lascia che le parole soffino a fior di labbra?

Per cominciare, siamo i migliori.

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