Ercole Patti visita la casa museo di Bellini

Dal Diario Siciliano di Ercole Patti le pagine datate al Settembre 1957 svolgono la cronaca di una visita al museo belliniano di Catania svoltasi in compagnia dello scrittore e amico Mario Soldati. A piedi, dopo aver percorso la via Crociferi, i due visitatori allungano fino al portone della Casa di Giovanni Verga, e poi ritornano alla palazzina settecentesca che si affaccia in via Vittorio Emanuele. La casa del musicista è diventata un piccolo museo che raccoglie piccoli oggetti, reliquie del padrone di casa, Vincenzo Bellini. Non c’è retorica, “il cortile settecentesco è zuppo di umidità”, “una donna in ciabatte indica familiarmente la scaletta che porta all’appartamento”. L’atmosfera dimessa di casa privata è la caratteristica del museo, senza i freddi tratti della celebrazione. Sembra un luogo della vecchia Catania abitata da piccoli impiegati, scrive Patti. Piccoli cimeli, segni d’una presenza invisibile (la tastiera del cembalo scoperta come se…). L’appartamento è “modesto”, pur conservando testimonianze di gloria artistica. Poi un “camerino piccolissimo”, un signore è seduto dietro la macchina da scrivere: il maestro Pastura, direttore del museo, appassionato e competente della musica di Bellini.

I visitatori si soffermano nella stanza degli autografi. Soldati canticchia qualche melodia leggendo dallo spartito. Il quaderno degli appunti musicali offre spunto per una conversazione sulla tecnica compositiva del musicista. L’unico documento che richiami un’idea di grandezza sembra essere una lettera di D’Annunzio, la sua calligrafia, una poesia dedicata a Bellini, un ampio, clamoroso e notissimo autografo.

Poi uno sgabuzzino in cui è riposta la bara con cui il corpo di Bellini nel 1876 fu riportato da Parigi a Catania. C’è spazio anche per la maschera funebre. Ma tutto questo ha piuttosto l’aria cordiale dei vecchi oggetti in disuso che si custodiscono affettuosamente nei solai di certe casa siciliane.

Questo piccolo museo custodisce una grande ma breve esistenza. Raccoglie con semplicità i resti mortali del tempo. Le analogie alla luce vivida e malinconica che invade la casa di Verga sono almeno due. Una volta fuori, la vita del Corso Vittorio Emanuele avvolge i due visitatori, un leggero odore di pesciolini fritti.

Una testimonianza malinconica e commossa. La visita al museo è ancora oggi possibile, e forse non è cambiato molto in questa piccola casa museo del 1957: piccoli oggetti, appunti musicali, manifesti teatrali, qualche lettera, dove sembra che si aggiri ancora oggi il fantasma poetico di Vincenzo Bellini.

La rovina dell’amore, su Petrarca e Franco Arminio

Francesco Petrarca si stringe nel ricordo di Laura, quand’anche la donna sia lontanissima e pure non più giovane. Il tempo fugge, e raspa l’avvenenza. Ma il poeta s’avvolge nell’immagine di quella Laura che aveva acceso l’incendio della passione. Il sonetto XC del Canzoniere è dedicato alla rovina della bellezza (così scrive Santagata nel suo L’amoroso pensiero), presentimento dell’inverno dell’età morta. Un sonetto sulla fine, che è invece celebrazione della bellezza divina: aura e lauro, natura, paesaggio, campagna, dolci e fresche acque, e azzurra vibrazione luminosa.

Quindi: Erano i capei d’oro a l’aura sparsi/ che ‘n mille dolci nodi gli avvolgea,/ e ‘l vago lume oltra misura ardea/ di quei begli occhi ch’or ne son sì scarsi … (I biondi capelli erano sparsi al vento, che li avvolgeva in mille dolci nodi, e ben oltre le umane qualità sfolgorava la luce scintillante di quegli occhi, che ora ne sono così poveri …). Laura è luce, vento, sole, amoroso raggio. Notte e pioggia scende e cade di contro alla solitudine, quando sconforto e rifiuto congela il cuore di Petrarca.

Franco Arminio sembrerebbe che costruisca visioni poetiche assommando ombra e luce. Rovina della carne e luce dell’estasi che lavorano sull’assolato mistero della bellezza. Rovina ed eternità amorosa, registrati con sensibilità contemporanea. Un ritrarsi e credere alla folgore. Scrive: Ora che non posso vederti/ mi piace immaginarti mentre guardi/ una vacca, un cane, un cardo./ Non so se lo ricordi/ il ramo storto dei miei sguardi. Come gran parte della tradizione lirica d’amore, pure classica, di ogni tempo, l’amore ha bisogno di rivelarsi in continuità con la natura, le leggi misteriose della vita. Anzi, toccando la natura il sentimento (passione e comunità) trova la Bella d’erbe famiglia e d’animali. Il ricordo dell’amata si rinforza accanto a un cardo, un cane, una vacca. Cose alte, altissime, e cose basse, di poco conto e impoetiche: la vacca e il cardo. La bellezza del sentimento e la rovina verso il basso, il ramo storto. L’aura che è Laura.

Ma a differenza dei tempi di Petrarca e Foscolo, non c’è natura oggi che non sia lontana da noi, qualora occidentali inurbati al novanta per cento. L’amore, che nell’artifizio intelligente e utilitaristico della città è fatto di carne, giuramenti sottoscritti e festeggiamenti, ha bisogno, per essere posseduto nell’espressione linguistica e poetica, di succhiare luce da un ramo storto, la cui incongruenza per noi è miracolosa, dai fiordi e dal grano, ma il grano il fiordo e il ramo storto non cambiano natura, a differenza del lauro e dell’aura. C’è una separazione tra noi e loro, gli extra umani.

E quindi: Non me lo scordo/ il tuo sesso profondo/come un fiordo. (da Cedi la strada agli alberi)

Separazione (noi e la natura) e mistero. La carne, chiamata per nome e cognome, e la natura così com’è. In mezzo, il legame sentimentale, il salto dell’immaginazione: la luce, che non è persona, ma stato di grazia.

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La scuola che stanca

Thomas Bernhard e Peter Handke potrebbero avere più cose in comune, ma almeno due sono certe. Entrambi austriaci, tutt’e due poi non sono teneri nei confronti delle istituzioni culturali del loro paese. In Bernhard si leggono parole incendiarie verso la scuola. In Estinzione lo zio Georg confida al nipote che in Austria ho l’impressione, quando sono in treno, che nello scompartimento siedano solo titoli di professore e di dottore, non persone, che per le strade camminino solo orde di diplomi, non giovani, solo consiglieri di corte, non vecchi. Come mio padre aveva fatto con il diploma di licenza della scuola professionale per i lavoratori del legno, anche mio fratello aveva appeso alla parete sopra la sua scrivania il diploma di licenza della scuola forestale di Gmunden, in una spessa cornice, come se si trattasse di pale d’altare. la conclusione di quelle loro scuola, senza dubbio necessarie ma in tutto e per tutto ridicole, la sentivano come il culmine della loro vita. Tutto il mondo soffre della malattia dei diplomi e dei titoli, che rende impossibile una vita naturale. Ma nei paesi latini non si sono ancora raggiunte in questo campo, assolutamente, le estreme, deprimenti condizioni austriache e tedesche, diceva mio zio Georg (trad. Lavagetto).

La sensazione o la condizione di stanchezza per il premio nobel Peter Handke ci mette dinanzi ad un bivio che conduce in luoghi fertili e luminosi oppure territori incolti e inospitali. La scuola, naturalmente, rientra tra le esperienze più deprimenti. La stanchezza nelle aule con il passare delle ore mi faceva anzi al contrario diventare riottoso o arrabbiato. Era in genere meno l’aria viziata e lo stare stipati degli studenti a centinaia, quanto piuttosto la non partecipazione degli insegnanti alla materia che pure avrebbe dovuto essere loro. Mai più ho visto gente così inerte (trad. Picco). L’esperienza scolastica svilisce la vitalità dello studente.

A sentire parlar male della scuola, si finisce per crederci. Chiunque sia stato studente, ha avuto tra i tanti suoi insegnanti, due tre che esprimevano inerzia o apatia. E seppure da punti di osservazione e contesti culturali diversi, denigrare l’insegnamento è uno sport che viene bene a tutti. È divertente, vendicativo e innocuo, ma non fa bene alla professione. Ricordo un passo di Cicerone tratto dalle Tusculanae Disputationes (I,4). L’oratore difende la filosofia e il valore della cultura (a quei tempi prevalentemente in lingua greca) dal disprezzo che godevano presso le famiglie più aristocratiche di Roma. Non la poesia o la filosofia, ma i valori tradizionali formavano il giovane romano, futuro soldato e pater familias. I Catoni contro gli Scipioni. Philosophia iacuit usque ad hanc aetatem nec ullum habuit lumen litterarum latinarum […] Honos alit artes, omnesque incenduntur ad studia gloria, iacent ea semper quae apud quosque improbantur (La filosofia fino ad oggi è stata trascurata né ha mai ricevuto alcun lume dalla letteratura latina. Il prestigio è l’alimento delle arti, ed è il desiderio di gloria che spinge a praticarle, mentre sono abbandonate le attività in discredito presso le varie genti).

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Come non dimenticare un amore

Una visita alla città di Roma rinnova l’ardore per le cose sante e sacre, la magnificenza della religione, le bellezza delle chiese e degli arredi, le cerimonie, il volto severo del Cristianesimo. A metà Trecento, Roma non era la Roma dei papi rinascimentali. Il poeta osserva le manifestazioni della santità e vorrebbe imitare lo spirito. Ma quello, nella finzione poetica e nella sostanza, è stato solo un viaggio per fuggire da altri pensieri, più per distrazione che per vocazione, e il mondo fa guerra nel cuore di Petrarca, ben schierato sotto l’insegna della sua Donna: Laura. Fare esperienza che la fuga, questa fuga, da un nemico (Laura) all’altro (Dio), non è il miglior modo per vincere un nemico amato, mette il poeta in agitazione. Impallidisce, s’agghiaccia dentro, trema e brucia, il ghiaccio della ragione morale e il fuoco del desiderio. Due forze opposte che si fanno battaglia, senza che vi sia vincitore.

L’aspetto sacro della terra vostra

mi fa del mal passato tragger guai,

gridando: sta su, misero: che fai?

E la via di salir al ciel mi mostra.

Ma con questo pensier un altro giostra,

e dice a me: perché fuggendo vai?

Se ti rimembra, il tempo passa omai

Di tornar a veder la Donna nostra.

I’, che ‘l suo ragionar intendo allora,

m’agghiaccio dentro in guisa d’uomo ch’ascolta

novella che di subito l’accora.

Poi torna il primo, e questo dà la volta.

Qual vincerà, non so; ma infino ad ora

Combattut’hanno, e non pur una volta.

(Francesco Petrarca, Sonetto XLIV)

La fuga non è sempre il miglior modo per sconfiggere un amore sgradito. Quia malum suum circumferenti locorum mutatio laborem cumulat, non tribuit sanitatem. A chi porta con sè il male, mutare luogo aumenta il travaglio, non dà la salute, dice Agostino nel Secretum. Qualche pagina avanti offre un consiglio pratico. Se fuga dev’esserci, deve avvenire senza la speranza del ritorno cosicché le difficoltà di una nuova vita avranno la forza di ridimensionare e sconfiggere il ricordo dell’amata. È un consiglio estremo. C’è stato un tempo chi, per affari di cuore, si arruolava nella Legione straniera oppure faceva biglietto solo andata per un’isola dei Caraibi. Ma Agostino afferma che chi fugge, se fuggire deve, è bene che scelga luoghi affollati. Tam diu cavendam tibi solitudinem scito, donec sentias morbi tui nullas superesse reliquias. Ubi enim rusticationes nichil tibi profuisse memorasti, minime mirari decuit. Sappi che per dimenticare un amore bisogna evitare la solitudine finché non si guarisce. Andare a vivere in campagna è servito a poco. Per fuggire dal male sei corso verso la morte! Morbum fugiens currit ad mortem!

Quisquis amas, loca sola nocent, loca sola caveto

Quo fugis? In populo tutior esse potes.

Ha scritto Ovidio nei Remedia amoris: nella folla, tra le pesone, potrai essere più sicuro. E ancora Petrarca in CCXXXIV: e ‘l vulgo a me nemico et odioso/ (ch ‘l pensò mai?) per mio refugio chero: / tal paura ho di ritrovarmi solo.

Un viaggio a Roma non è servito a cancellare la memoria di Laura.

Sulla meditazione.

Nel secondo libro del Secretum di Francesco Petrarca, Agostino ribadisce il proprio ruolo di guida spirituale, e si appresta a fare l’elenco dei comportamenti che sono d’ostacolo ad una vita serena. Così come aveva fatto Virgilio con Dante, pur in modalità differente, anche Agostino guida Francesco attraverso i suoi peccati. Ma prima d’iniziare è fatta una premessa. Il nemico è invisibile, come un esercito la cui forza è sottostimata, eppure circonda e smantella a poco a poco le difese. La metafora bellica serve a mostrare quale sarà il compito della guida spirituale. Prima che ci sia la sconfitta, Agostino svelerà la natura del nemico in modo che il discepolo potrà essere iniziato alla filosofia etica. Videbis profecto cogitatio illa salubris, ad quam te nitor attollere, quot adversantibus cogitationibus victa sit. La meditazione capace di dare salute (cogitatio illa salubris) è disabilitata da un nemico subdolo e mascherato, che promette felicità ma produce infelicità. Il nucleo di tutto il dialogo che segue si può sintetizzare nella stigmatizzazione di ogni gesto o pensiero che ha come oggetto un bene materiale o anche un’abilità intellettuale come l’eloquenza o la scienza, lontane dalla luce della meditazione sulla morte.

L’iniziazione alla felicità è iniziazione alla filosofia etica. Memento moriri, dice il filosofo etico. È questa la pietra di paragone. Recto tibi invictoque moriendum est, scrive Seneca (ep. 37). Orgoglio e fierezza. Effugere non potest necessitates, potest vincere. La filosofia etica, anche quando non è intimamente ispirata da una teologia, è rinuncia delle passioni terrestri, come nel modello oraziano dell’aurea mediocritas. Affidare troppi pensieri alle cose della vita quotidiana, non ci solleverebbe dalle preoccupazioni e farebbe nascere inutili tensioni. Un pensare, invece, sotto l’ala protettrice della signora morte, è come volgere uno sguardo pacificato al mondo. Vide quos tibi mundus laqueos tendit, quot inanes spes circumvolant, quot supervacue premunt cure, dice Agostino. E Seneca aggiungerebbe: nascimur sine missione.

Petrarca non mette mai in dubbio la teologia cristiana. La fede cattolica del Petrarca è purissima, non veramente incrinata da alcun dubbio: talvolta si direbbe perfino più sicura di quella del teologo Dante, una verità interamente accolta e tranquilla. La sofferenza di Petrarca è nel dover riconoscere come male e come peccato ciò che alla sua terrestrità sensibile è più caro: nel dover sentire il male di amare Laura. (Flora).

E nei fatti, sapere che ciò che è nel mondo non dura, non abbatte o innalza Petrarca a una forma di misticismo religioso, se non si stima frutto di radicale spiritualità la cattedrale che Petrarca ha edificato usando il volgare fiorentino. Il discorso sull’eternità risulta sempre essere un po’ sbiadito e l’infelicità non nasce tanto dalla lontananza da Dio, quanto dalla difficile realizzazione di un mistico desiderio di esaltazione della dimensione terrestre. La gloria che varca i secoli è postuma, e Laura è stata un imperativo poetico. E il compromesso tra morte e immortalità ha prodotto la teologia del Canzoniere.

Crooner

Anche nel breve racconto Crooner di Kazuo Ishiguro, una vicenda privata si articola nei confini delle dinamiche politiche di una società. L’assetto culturale ed economico di un luogo influenza i sentimenti e la felicità del singolo individuo. E il ripiegamento nostalgico verso un mondo che non c’è più non sopravvive in una società in cui la libera circolazione di merci ed idee provoca continui cambiamenti dello stile di vita. In Ishiguro emerge un’incompatibilità sentimentale con il cambiamento. I suoi personaggi non vogliono sradicarsi, perché nel passato, benché autoritario e inclemente, ritrovano l’essenza di un’autenticità. Il cantante confidenziale Tony Gardner in crisi professionale ha messo sul conto della rinascita artistica anche la separazione dalla moglie. Look at the other guys, the guys who came back successfully. Every single one of them, they’ve remarried. Twice, sometimes three times. Every one of them, young wives on their arms. E rivolgendosi all’interlocutore, un musicista dell’est europa, dice: My friend, you come from a communist country. That’s why you don’t realise how these things work. Non c’è moralismo, ma contrapposizione tra una società in cui si cambiano le cose che si amano (You change the way you are. You even change some things you love) e la confortante rigidità delle dittature.

Da Carver a Sgalambro

Il racconto Blackbird pie di Raymond Carver rappresenta il momento esatto in cui una donna dice addio al proprio marito. Scrive una lettera e, mentre lui la legge nella propria stanza, lei, ben vestita, con la valigia pronta, esce di casa e lo pianta. Fuori c’è la nebbia e un insieme di altre cose che non sto qui a riassumere. Il perché della separazione non è ben chiaro, sembrerebbe che il marito sia sempre stato un po’ distratto. La solitudine, come un’infida malattia, ha fatto il suo corso.

My wife had non friends here in the contry, and non one came to visit. Franckly, I was glad for the solitude. But she was used to having friends, used to dealing with shepkeiper and tradesman. Once upon a time a house in the country would have been our ideal – we would covetedsuch an management. Now I can see it wasn’t such a good idea. No, it wasn’t. La vita solitaria è stato un errore.

Alla fine del racconto, la voce narrante dichiara: to take a wife is to take a history. I understand that I’m outside history now. Autobiografy is the poor men’s history. L’autobiografia è la storia dei poveri. Ricordo un passo di Manlio Sgalambro (non saprei riportare adesso la citazione con maggior cura), ma la sostanza del contenuto è un elogio della vita matrimoniale, come unica occasione per essere in relazione con l’altro e fare esperienza della realtà. Prendere moglie è come entrare nella storia a testa alta. Perdere la moglie significa trovarsi improvvisamente a giocare in panchina, fuori dalla storia (I’m outside history now). Chi vuole ripercorrere le fasi del matrimonio, andrà a leggere ciò che è rimasto scritto, its scraps and tirades, its silence and innuendos. Ma senza moglie non ci sono litigi e notizie frammentarie da ricostruire. C’è solo quello che ci raccontiamo da soli, l’autobiografia: e l’autobiografia è appunto la storia dei poveri.

Boxes

Una madre si lamenta continuamente col figlio, ripete che la città in cui vive è invivibile, fredda e inospitale (She said if this weather didn’t improve she was going to kill herself), e lo dice fino all’esasperazione. Si è trasferita da appena un anno. E Jill, la compagna del figlio, non sopporta l’invadenza della suocera. Il figlio, pur infastidito, ha una grande pazienza. Cerca di parlarle per telefono, ma allo stesso tempo preferisce farle visita il meno possibile. Ma adesso la madre li ha invitati a un pranzo, l’ennesimo pranzo, e stavolta è un’occasione speciale perché è un pranzo d’addio. La madre andrà a vivere lontano, in California. Il figlio è preoccupato, anche se non nasconde un certo sollievo, la lontananza potrebbe concedere un po’ più di respiro alla loro relazione. Ma non è solo un fatto di spazi e invadenza. Benché il carattere scontroso e irritante sembra contraddirla, la madre soffre la solitudine. Vorrebbe amare ed essere voluta bene, ancora. Il figlio ricambia, è vero, ma si posiziona tra due fuochi: l’insofferenza proverbiale di Jill, la nuora, e l’aggressività della suocera. Il figlio, che è la voce narrante, è un uomo equilibrato, paziente, ascolta, osserva, capisce tutto questo, ma non si ribella, convive con la guerriglia quotidiana della compagna e della madre. Affronta le situazioni dalla giusta distanza. Anche se il momento dell’addio è vissuto con sentimentalismo (My mother holds my arm… She says, “let me hug you once more. Let me love your neck. I know I won’t see you for a long time.” She puts an arm around my neck, draws me to her, and then begins to cry. […] I’ll miss you, honey). L’ultimo saluto, poi lei alza il finestrino dell’automobile e parte. È quasi un addio tra marito e moglie. Perché in quel momento lui incarna l’assenza del marito. E allora anche in California la madre continuerà quindi a chiamare per telefono il figlio, lamentandosi sempre del clima e delle persone. Nulla in lei è cambiato. E lui, per starle vicino, fa una cosa nuova, usa una parola (a sweet name), che è una parola d’amore, ed è la stessa con cui suo padre le parlava.

Il racconto si intitola Boxes e fa riferimento alle scatole che la madre ha riempito per portarsi tutto in California. Sono rimaste sparse sul pavimento per diversi mesi, finché non si decide a partire. Ma non serve a nulla cambiare luogo,  se si rimane in compagnia della propria inquietudine. Ciò che manca nel figlio e in Jill, credo, sia un gesto risoluto e generoso. Avrebbero potuto invitare la donna a vivere con loro, sotto lo stesso tetto, e forse lei avrebbe cambiato atteggiamento. La consapevolezza della necessità di un gesto d’amore crea un’illusione. Oppure è l’inizio di una relazione più serena. Ma credo che nel mondo raccontato da Carver venga fatto uno sforzo immenso nel comunicare i sentimenti e cambiare la qualità dei rapporti interpersonali. E Comunque (come anche nel racconto Intimacy) il non detto è sempre più drammatico delle parole che volteggiano nell’aria.

Come nuvole di carta

di Riccardo Viagrande

Un bellissimo romanzo assolutamente da leggere: Come nuvole di Cotone di Antonella Carta. Il sogno di mio padre quando ero piccolo era di inseguire le farfalle con me. Col tempo, ci ha rinunciato. A occhi chiusi io rincorro ancora farfalle.Così si presenta, nella pagina iniziale, il protagonista del romanzo di esordio di Antonella Carta pubblicato di recente da Mursia. Chiamato con l’appellativo di Capitan Uncino per via di una protesi, una penna speciale con la quale picchetta sulla tastiera, il nostro protagonista è un diciassettenne disabile la cui teoria è espressa nella formula: per vedere bisogna chiudere gli occhi. In effetti il Capitano, pur nella sua condizione di disabilità, riesce non solo a stabilire un forte legame con la realtà, favorito dalla famiglia, e, in particolar modo, dal fratello Tullio, dalla psicologa Cristella e da amici e compagni di classe, ma affronta anche le problematiche legate alla crescita, scandagliando il suo animo e quello delle persone che gli stanno intorno attraverso una visione che va ben oltre le apparenze. Vera e propria finestra sull’adolescenza, le cui tematiche vengono affrontate con la finezza di una madre e di una docente, Come nuvole di cotone è un romanzo nel quale si riflette l’esperienza professionale e umana di Antonella Carta che ha restituito sulla pagina degli squarci di vita reale. Scritto in prima persona con un tono autoironico, il romanzo, inoltre, si impone per una scrittura scorrevole che rende piacevole la lettura a un pubblico di adulti, ma soprattutto di adolescenti per i quali riveste valore educativo nella misura in cui li aiuta a risolvere i problemi della loro età.

The sense of Julian Barnes

The sense of an ending è un romanzo di Julian Barnes pubblicato nel 2011. La materia della narrazione è la più tradizionale: un tizio ricorda gli anni trascorsi a scuola, i compagni di classe, i professori, le relazioni di amicizia, le ragazze. La giovinezza, insomma. Lo scrittore, che coincide con la voce narrante in prima persona, si sofferma a lungo nel ripercorrere le fasi di una intensa relazione sentimentale conclusasi con una rottura improvvisa. Poi il romanzo riprende l’andamento memorialistico, dagli anni sessanta fino ai giorni d’oggi. Tony, così si chiama, si è fatto una famiglia, ha una figlia, ha poi divorziato, ed ha raggiunto l’etâ della pensione. Sembrerebbe che la storia finisca qui, invece siamo ancora a pagina sessanta, e il romanzo di pagine ne ha altre novanta circa. Cos’è che rimanne da dire?

Tutto si svolge come se un vecchio amico si sedesse con te al bar e cominciasse in tutta sincerità a raccontarti la propria storia. Ma ad un certo punto deve cambiare la versione dei fatti: costretto a rispondere al telefono qualcuno gli rivela qualcosa per cui, terminata la conversazione, questo vecchio amico ricomincia a raccontarti di nuovo tutto, modificandone la valutazione, le cause, il contesto. E poi, quando sembra che tutto abbia finalmente un capo e una coda, il tuo vecchio amico riceve un messaggio tanto sconvolgente che lui, che in realtà è una persona che non vorrebbe mai ingannare se stesso o gli altri, si ritrova a dare ancora un’altra versione di quel momento così significativo della propria esistenza. Uno stupido, penserai. Eppure, quante cose ci siamo raccontate solo dal nostro punto di vista e non abbiamo avuto più l’opportunità di risalire la corrente del tempo e potercele raccontare come si deve, per fare onore alla verità? La narrazione porta con sè un vizio. Il punto di vista assunto per senso di colpa, per immaturità, per convinzione, oppure semplicemente per pigrizia o senso di sopravvivenza. Ogni storia d’amore, quando la si racconta ad altri o a se stessi, è fatta di frammenti, immagini rassicuranti o minacciose, alcune pagine rimangono in bianco, altre sono così fitte di parole da lasciare perplessi lo stesso autore.